- Premessa
- Seicento anni di sottosviluppo
- Le tre filiere
- Tendenze attuali
- Le scelte dell'Unione Europea, le manovre economiche, Pomigliano
- Quali prospettive?
- Un impegno
Premessa
Questo documento rappresenta un momento di riordino di alcune riflessioni compiute nell’ultimo anno da alcuni compagni di Rifondazione Comunista, dal movimento anticolonialista o più precisamente da coloro che si riconoscono nel progetto di una sinistra sarda. Il senso di questo lavoro è di inserire in un contesto più articolato le discussioni e gli studi fatti non da esperti ma da militanti, mettendoli in relazione gli uni con gli altri. È un punto di partenza da cui prendere spunto per analisi più dettagliate, più approfondite.
Ma non ci limitiamo a riordinare e riportare risultati di altre analisi. Vogliamo andare oltre. Offriamo spunti per il futuro, per le lotte che questo movimento si trova ad affrontare, da quella contro l’imposizione nucleare a quella per la sopravivenza linguistica. Lo scontro contro i potenti interessi che muovono il potere politico ed economico è difficilissimo, e il movimento, ancora frammentato e non esente da contraddizioni, sconta un ritardo enorme a tutti i livelli, organizzativo in primo luogo, ma anche politico e di analisi.
1. Seicento anni di sottosviluppo
La Sardegna è un territorio di grande importanza strategica. Lo è sempre stata ed è sempre stata anche una terra di conquista, al centro degli interessi delle grandi potenze del Mediterraneo di ogni epoca. Catalogna, Francia Repubblicana, Corona Spagnola, pirati saraceni, Duchi di Savoia e Repubbliche Marinare, fino ad arrivare allo stato italiano unitario. Molti hanno avuto a che fare con la Sardegna, alcuni hanno provato a conquistarla, e qualcuno c’è riuscito. Per loro la Sardegna è stata una miniera, una postazione militare e uno scalo marittimo, una riserva di legname, una cava di granito, nonché una terra di confino. Insomma, è sempre stata usata per soddisfare qualche interesse dei suoi vari conquistatori. L’economia sarda, dunque, è stata l’economia che di volta in volta hanno imposto gli invasori, è sempre stata un’economia di rapina, finalizzata a impossessarsi di risorse e a trasferire ricchezza dall’isola a Barcellona o a Torino.
Il sottosviluppo non va inteso come una non-evoluzione, un essere rimasti indietro. Si tratta piuttosto di uno sviluppo parallelo deformato, quasi un tumore. È come una malattia, un cancro che cresce, che deforma la società, si nutre di essa fino a consumarla interamente. L’altra faccia del sottosviluppo è la ricchezza, l’opulenza, lo spreco: se questo cancro non fa che assorbire le risorse (non solo economiche, ma anche umane e culturali) di una società, vuol dire che questa ricchezza viene incamerata da qualcuno. Il cancro del sottosviluppo necessita di molte risorse per continuare a espandersi, ma il grosso della ricchezza che assorbe va ad altri, lontano dal luogo di origine. Questa situazione non nasce per via della presunta inferiorità di un popolo. Nasce dalla violenza. E genera l'idea che i dominati siano inferiori. Il sottosviluppo nasce dalle guerre di conquista, dal colonialismo e dall’imperialismo. Anzi, ne è lo strumento; non è dunque figlio di processi economici incontrollabili, ma è la conseguenza di scelte politiche, della volontà umana.
In Sardegna che faccia ha questo cancro? Ne ha avute più d’una. Quando al tramonto del medioevo i catalano-aragonesi riuscirono a sottomettere il Regno giudicale di Arborea e conquistare tutta l’isola il sottosviluppo prese le forme del feudalesimo. In Sardegna per tutto il Medioevo si erano sviluppati i Regni giudicali, che formavano un sistema sociale, economico e politico originale, che poteva essere la base per uno sviluppo autonomo, un’altra “via alla modernità”. In quell’epoca (seconda metà del ‘400), il sistema feudale era in pieno declino in tutta l’Europa, ma nei decenni successivi avvenne qualcosa di curioso: il cuore dell’Europa passò a una organizzazione sociale più evoluta, urbana, commerciale, capitalista, mentre la periferia del continente vide rinascere il feudalesimo, in forma ancora più retrograda e repressiva. Le aree orientali e meridionali del continente si ri-feudalizzarono, divennero la periferia di un unico sistema economico. Olanda, Inghilterra, parte della Francia, Italia del nord, Prussia e per un po’ anche parte del Regno di Spagna divennero il centro del mondo divorando ricchezze prima dalla periferia sottosviluppata, poi dalle Americhe e infine da tutto il mondo.
Ma torniamo a noi. In Sardegna il feudalesimo fu introdotto in quell’epoca dagli invasori catalani. Quel sistema era un cancro che consumava il lavoro dei contadini e dei braccianti sardi, anzi consumava i sardi stessi: feudatari stranieri e sardi, ecclesiastici, mercenari e notabili si impossessavano di tutto ciò che veniva prodotto. Si lavorava per loro. Pur consumando una notevole quantità di risorse quei parassiti non consumavano tutto per sé, anzi sotto varie forme il grosso della ricchezza prendeva la via del mare.
Le cose cambiarono alcuni secoli più avanti: l’isola era stata ceduta ai Duchi di Savoia a seguito di alcuni trattati. Al termine del XVIII secolo il sistema di rapina feudale risultava piuttosto obsoleto, però la Sardegna era un Regno. Così i Duchi di Savoia divennero finalmente Re, Re di Sardegna.
Nei primi decenni del XIX secolo iniziò lo smantellamento del sistema feudale, e pian piano cominciò a configurarsi un nuovo sottosviluppo: più moderno, più capitalista. In Piemonte e nell’Italia settentrionale nasceva il capitalismo industriale. Il motore di quel sistema aveva necessità di enormi quantità di risorse e materie prime: legname, carbone, minerali furono predati in grandi quantità dalla Sardegna, unica terra rapinabile disponibile, almeno fino alla conquista del meridione.
Dopo decenni di sparatorie, impiccagioni, migrazioni e guerre mondiali le cose cambiarono un’altra volta. Con il Piano di Rinascita negli anni ’60 del XX secolo la Sardegna finalmente entrava nella modernità. Finalmente il grande salto, il cambiamento. Ma l’ingresso in questa modernità aveva un prezzo: ci si poteva entrare, ma solo come sottosviluppati. Ogni progetto di sviluppo delle risorse locali venne presto accantonato per far posto alla logica dei “poli industriali di sviluppo”. Una modernità parallela e deformata, ma idealizzata come unica via per lo sviluppo. Ecco quello che venne offerto in cambio del declassamento del modo di vita e della cultura popolare sarda, a suo modo multiforme e raffinata, a simbolo dell'arretratezza da annientare. Questo rapporto distorto con la modernità riguarda molti popoli come il nostro, che hanno assorbito questa modernità in modo passivo dall’Occidente, subendola.
Una caratteristica delle economie sottosviluppate è che si concentrano su poche attività. Attività basilari come l’estrazione di una materia prima o una particolare produzione agricola. Il termine mono-coltura nasce in quelle nazioni quasi interamente coltivate a cacao e caffè per esempio. Non sono economie che bastano a se stesse, non sono in grado di auto-sostentarsi, dipendono da altre economie, da altri stati, da prezzi di mercato determinati da altri. Sottosviluppo ed economia di dipendenza, un matrimonio perfetto, da cui nascerà nel corso dei decenni successivi il debito.
Assieme alla modernità in Sardegna introdussero una nuova “mono-coltura” industriale: la petrol-chimica. Esistevano già altre monocolture: quella legata alle miniere e al carbone e quella legata all’allevamento degli ovini e alle produzioni casearie. Il mondo che viveva attorno alla pastorizia e all’allevamento venne messo sotto attacco e disgregato, messo ai margini. Ormai non serviva più, anzi era un ostacolo alla modernità incalzante. Anche il tempo delle miniere si stava esaurendo, e in maniera non certo indolore si concluse un’epoca nella Sardegna sud-occidentale.
Prima che la modernità facesse il suo ingresso trionfale nell’isola un’altra mono-coltura era stata introdotta nell’immediato dopo guerra. A differenza della petrolchimica fu fatto di soppiatto, senza destare troppi clamori. Si trattava della creazione dei poligoni militari di Quirra, Teulada, Capo Frasca, delle basi USA per i sottomarini nucleari,della marina e della aviazione militare italiana e NATO. Porzioni immense di territorio si trasformarono in aree di sperimentazione, di bombardamento, di grandi manovre di reparti corazzati, di marine militari e aviazioni delle forze NATO e di grandi imprese private, che presto sarebbero diventate multinazionali.
In quegli stessi anni la Sardegna diventò un luogo in cui i segni della propria storia e della propria cultura assunsero, agli occhi dei sardi, la valenza di simbolo di un'arretratezza da liquidare . Sono gli anni in cui il formaggio tradizionale viene venduto come “toscanello”, il pane carasau rinominato “carta da musica”, le abitazioni tradizionali rase al suolo e sostituite da anonime case in cemento, il romanico giudicale diventa, genericamente, “romanico pisano” e in cui, soprattutto, si considera parlare il sardo, e parlarlo nello spazio pubblico, come una pratica disdicevole e da ignoranti.
Intanto il mondo cambiava. Anche la petrolchimica arrivava al suo tramonto e quasi senza accorgersene anche la modernità, i suoi valori e le sue promesse non mantenute, cadevano nell’oblio. Se nel mondo la modernità moriva nel 1989 o nel 1991, da noi, la cosiddetta post-modernità arrivò un po’ dopo, in punta di piedi. Se la modernità era arrivata con la petrolchimica, la post-modernità si presenta nella forma del turismo di massa e della cementificazione, dello smantellamento dell’industria petrol-chimica (ma non tutta), dell’eolico, delle scorie e del nucleare. Come l’epoca precedente questa nuova non scalza completamente la vecchia, e il suo ingresso non è stato certo indolore. Tale avvicendamento è tuttora in corso e i dolori sembrano tutt’altro che finiti.
2. Le tre filiere
La fine della modernità non ha segnato il declino della sperimentazione militare in Sardegna, che anzi ha acquistato una centralità sempre maggiore. Oggi il demanio militare ammonta a 24.000 ettari a fronte dei 16.000 ettari occupati nella penisola italiana. Il 60% di tutte le installazioni militari sono dislocate in Sardegna. A questa cifra si devono sommare 12.000 ettari di terra gravati da servitù militare. In mare le “Zone Interdette o Dichiarate Pericolose per la Navigazione” si estendono per 2.840.000 ettari superando per estensione la superficie dell'intera isola[1]. Il poligono di Capo Teulada è il primo d’Europa per intensità di utilizzo, il secondo di dimensioni (il primo è quello di Quirra), l’unico che possa ospitare esercitazioni a livello di battaglione corazzato.
La “rivoluzione marziale”, maturata nell’ultimo quindicennio nelle forze armate nordamericane, è incentrata sull’idea di una forza militare che possa ridurre gli organici affidandosi sempre più sull’alta tecnologia e ai mercenari professionisti. Quest’idea di guerra rende la sperimentazione e la ricerca un nodo strategico centrale. A questa “rivoluzione marziale” si sono adeguati tutti i principali alleati della NATO e anche Israele.
I poligoni sardi sono divenuti così il punto d’incontro tra gli eserciti dei paesi NATO, d’Israele e le grandi multinazionali produttrici di armamenti quali Finmeccanica, Alenia, Aérospatiale, Thompson, ecc. Chissà quanti problemi in più avrebbero avuto gli Stati Maggiori nel combattere le guerre in Jugoslavia, Iraq, Afghanistan, Palestina e Libano senza i poligoni sardi. Forse questa “rivoluzione marziale” non avrebbe neppure avuto luogo senza poter perfezionare l’uranio impoverito, il fosforo bianco, i missili, le bombe atomiche tattiche, i droni, le bombe cluster, intelligenti, a guida laser o le armi a energia diretta (laser, microonde, raggio del dolore). Sta di fatto che oggi gli Stati Uniti spendono più di mezzo miliardo di dollari all’anno nella ricerca e nello sviluppo di armi ad energia diretta, cioè quanto l’intero budget in materia di difesa di una nazione europea[2].
Le Forze Armate italiane affittano i poligoni ai loro alleati e alle aziende private ad un costo che si aggira intorno ai 50.000 euro l’ora. A quella cifra una settimana costerebbe quasi otto milioni e mezzo di euro. Dunque i poligoni non danno solo un importante vantaggio strategico all’Italia, ma sono anche un business. S’intrecciano, quindi, interessi militari, strategici ed economici.
La post-modernità non ha solo eletto la Sardegna a gran poligono della NATO, ma anche a “piscina d’Italia”. Il turismo di massa, il turismo di lusso, il turismo di cemento: il turismo è tante cose. È una risorsa economica per i sardi, per un tessuto commerciale, alberghiero e micro-imprenditoriale diffuso. È una fonte di lavoro, seppure stagionale e spesso sommerso. Ma il prezzo qual è? Nel 2007 sono stati registrati 2.280.173 arrivi, che mediamente si sono trattenuti per circa 5,2 giorni ognuno per un totale di 11.851.213 presenze (notti trascorse). Queste presenze sono distribuite per il 40,5% nella provincia di Olbia-Tempio, per il 23,9% nella provincia di Cagliari, per il 13,7 % nella provincia di Sassari e il 9,9% in quella di Nuoro[3]. La maggioranza di questi turisti si sono accalcati lungo le coste nei siti maggiormente pubblicizzati e rinomati: Costa Smeralda, Porto Cervo, Palau, Santa Teresa di Gallura, San Teodoro, Alghero, Villasimius, Costa Rey, Cala Gonone, Chia.
Immaginiamo il denaro che quasi due milioni e mezzo di turisti spende in cinque giorni medi di permanenza, e proviamo a vedere dove vanno a finire. Tutto quello che un turista spende per arrivare nella “piscina d’Italia” va in tasca a un numero ristretto di compagnie aeree e navali, che non hanno nulla a che vedere con la Sardegna, a parte la Meridiana, che ha sede a Olbia e la cui proprietà è di Aga Khan. La sola Meridiana nel 2007 ha fatturato 386.995.000 euro, con un utile di 1.115.000 euro[4].
Escludendo le spese del viaggio rimane ancora una consistente fetta di guadagno. I dati sulla dislocazione dei flussi turistici ci indicano un fenomeno interessante, cioè la concentrazione dei turisti grossomodo attorno a due poli: Olbia e Cagliari. Teniamo a mente questo aspetto, perché è straordinariamente coincidente con alcune preoccupanti dinamiche demografiche dell’isola. Il monopolio dei flussi turistici in quelle zone è notoriamente gestito da grandi villaggi turistici, residence, catene alberghiere in mano al grande capitale privato italiano. L’impresa familiare, l’agriturismo, il bed and breakfast, il bar: anche loro riescono a beneficiare di questo business, magari a farci anche dei buoni guadagni, ma di fatto tutto questo sta ai margini del vero flusso di denaro.
Questo non è libero mercato da imprenditori, questo è molto di più. È roba da veri capitalisti italiani, come la Marcegaglia. La concentrazione dei turisti va di pari passo con altri fenomeni: speculazione edilizia, cambio d’uso dei terreni, corruzione, scempio dei paesaggi. La Sardegna oggi è una moda, è una speculazione pubblicitaria decisa a tavolino, con prezzi alle stelle, colate di cemento e fiumi di soldi. Fiumi di soldi che i turisti portano in Sardegna e che dalla Sardegna vanno via prima della fine dell’estate.
Pensiamo all’effetto “Bolkestein-Smeralda”: l’utilizzo nell’industria turistica e delle costruzioni di lusso dei lavoratori stranieri, sempre pagati meno dei locali, sta distruggendo tutta quella parte dell’economia della Sardegna che basava la sua esistenza sulla “stagione”, dove intere economie di piccoli paesi si basavano sugli introiti provenienti dai lavoratori che si spostavano in “costa” e riportavano a casa salari degni (tuttavia quasi sempre il lavoratore veniva pagato in nero).
Il turismo, sebbene faccia parte del settore terziario, si fonda sullo sfruttamento di una risorsa, la bellezza paesaggistica, che non è rinnovabile. Anzi, è altamente deperibile, soprattutto quando non si pongono limiti o regole al suo sfruttamento. Quando tra alcuni anni l’invasione estiva dei 2.280.000 turisti e la speculazione edilizia avranno dissipato il nostro patrimonio paesaggistico, quando sarà finita la moda della Sardegna, a noi cosa rimarrà? Niente, come al solito. Ci resterà il ricordo del turismo come delle miniere e della petrolchimica, come di una monocoltura del passato, una rapina di risorse naturali come le altre. Come sempre ci è stato promesso che questa monocoltura sarebbe stata l’ultima, il definitivo volano di sviluppo. Invece no, si trattava come sempre del metodo più innovativo per rapinarci.
Si è parlato dello smantellamento della petrol-chimica. Non bisogna commettere l’errore di credere che si tratti di tutta la petrol-chimica. Una parte del comparto ha trovato un suo spazio anche nella post-modernità: si tratta della parte che non si limita a produzioni energivore e chimiche, ovvero di chi l’energia la produce, di chi si occupa di petrolio. Al primo posto per fatturati e utili permane con un enorme vantaggio su tutti gli altri la Saras di Sarroch. A un livello più basso, confrontabile con le rimanenti aziende guida, ci sono le controllate Arcola Petrolifera e la Sarlux, entrambe con sede a Sarroch. La ragione sociale? Petrolio, energia elettrica e gas.
Ma quanto pesa il settore petrol-chimico? Nel 2008 (prima del blocco della Vinyls, dell’Eurallumina e quello parziale dell’Alcoa) il peso era considerevole, in particolare per il petrolio:
“Nella graduatoria delle prime dieci merci esportate si evidenziano in particolare i prodotti chimica, gomma, plastica per l’85,1%. I prodotti chimici di base, petrolio, greggio e metalli preziosi risultano tra i primi prodotti esportati. […] Variegato il panorama delle importazioni che vede nell’Africa l’attore principale con circa il 43,5% delle merci; in particolare nelle prime dieci posizioni si trovano Libia, Iran e Iraq”[5].
Siamo in una fase di transizione, in cui la chimica perde importanza e in cui le produzioni energetiche ne acquistano sempre di più. L’Italia è un paese fortemente dipendente dalle importazioni di energia. Se ne produce troppo poca, e i costi sono alti. Il governo italiano ha seguito una linea spregiudicata in politica estera, cercando di garantirsi le importazioni di gas e petrolio vitali. I rapporti coltivati con Russia, Bielorussia, Libia e Venezuela non dipendono da una propensione berlusconiana all’amicizia con leader non allineati. Si tratta di protagonisti del mercato del petrolio e del gas, di cui l’Italia ha fortemente bisogno. D’altronde questo genere di politiche in Italia risalgono almeno alla crisi petrolifera del 1973-74.
La produzione di energia ha quindi una valenza strategica: tanta più energia si produce in Italia, tanto meno il paese avrà bisogno dei suoi “amici” russi o nord africani. E anche qui non si può certo dire che sia liberamente il mercato a determinare quantità e prezzo, vincitori e vinti. Qui non si scherza. C’è in ballo l’indipendenza della nazione, questa è roba da veri capitalisti italiani, come Moratti. Il bello del business energetico, infatti, è che si tratta di una attività fortemente sovvenzionata dallo stato, in cui i guadagni sono garantiti. Anche qua dunque si intrecciano gli interessi del grande capitale privato, dello stato e anche della mafia.
In questa prospettiva strategica di indipendenza energetica, o di riduzione della dipendenza si inseriscono tre nuovi progetti: l’eolico, il nucleare e il gasdotto GALSI. L’eolico, salutato come ultima frontiera del progresso, come salvifico produttore di energia gratuita, nell’isola si deforma come da copione: un’invasione di pale eoliche, una crescita tumorale di parchi eolici, infiltrazioni di capitali mafiosi, corruzione. Lo stato finanzia la costruzione di parchi eolici mastodontici e pervasivi del territorio, per i quali comunque sono necessari capitali consistenti, i quali sono a disposizione dei grandi capitalisti del nord e dei mafiosi del sud[6]. Chiaramente è il capitale privato a intascare i profitti, mentre il pubblico si avvantaggia raramente del costo ridotto di minori importazioni.
Riguardo al nucleare non serve spiegare la sua natura nociva per l’isola, e visto il contesto in cui si inserisce neppure quale sia la sua funzione. Ci limitiamo a sottolineare il carattere non democratico riguardo la sua installazione. Il governo ha infatti più volte fatto sapere che il parere delle regioni non sarà in alcun modo vincolante, tanto più che la corte di cassazione ha recentemente respinto il ricorso effettuato da varie regioni (la Sardegna non aveva fatto ricorso). L’idea manifestata è quella di operare militarizzando l’installazione delle centrali e dei depositi di scorie, meglio ancora costruendole sul demanio militare.
Quante centrali si costruiranno in Sardegna? Per ora non possiamo saperlo, però se sovrapponessimo una carta indicante il rischio sismico delle regioni con una mappa del demanio militare allora avremmo seriamente di che preoccuparci. L’elettrodotto che collega attualmente l’Italia e la Sardegna non sopporta un considerevole aumento del flusso di energia, però pare che si stia già lavorando per il suo raddoppio .
Ma c’è un pericolo ancora maggiore, se possibile, ed è quello dello stoccaggio delle scorie radioattive. La continua movimentazione su strade, porti e ferrovie, lo stoccaggio e la conservazione, sono una serie di pericoli mortali che si correrebbero ogni giorno. In più lo stoccaggio potrebbe essere effettuato sotto segreto militare all’interno dei poligoni. Ma è necessario, al fine del compimento di tali progetti, un capillare controllo del territorio, con relativa compressione delle libertà costituzionali: opinione, dissenso e possibilità di esprimerle con mezzi e metodi democratici.
Il gasdotto GALSI partirà dall’Algeria, attraverserà la Sardegna parallelamente alla 131 e arriverà in continente. Al momento non è prevista alcuna uscita dal gasdotto, per cui la Sardegna continuerebbe a restare sfornita di gas metano. Ma l’aspetto peggiore è la potenziale pericolosità di questo gasdotto, assieme alle servitù (zone interdette) che si accompagnerebbero ad esso. Se anche si trattasse di soli 6 metri, se moltiplicati per la lunghezza costituirebbero l’ennesimo enorme esproprio di territorio e sovranità al popolo sardo. Si tratta come al solito di sottrarre spazi (come per l’eolico, i poligoni ecc.) allo sviluppo dell’economia, dell’agricoltura e di qualsivoglia attività.
Con questi mostri della post-modernità arriviamo a completare il quadro. Tutte queste attività si possono riassumere in tre ambiti principali: la filiera turistica, la filiera militare e la filiera energetica. Abbiamo visto come queste attività necessitino di grandi spazi disabitati, di terra vergine. Sappiamo anche che queste attività necessitano di poca manodopera, con la parziale eccezione del turismo che ne richiede stagionalmente (sarebbe da approfondire e quantificare l’uso di manodopera qualificata proveniente dall’Italia in molte installazioni turistiche). Abbiamo anche visto come storicamente le attività economiche imposte dagli invasori dell’isola abbiano sempre soffocato l’economia autoctona, trasformandosi così in monocolture. Oggi le cose non sembrano essere cambiate, e anzi con l’avvento della post-modernità si intravedono scenari sempre peggiori; le mono-colture odierne impediscono lo sviluppo di qualsiasi altra attività di rilievo, divorando il territorio e svuotandolo del suo tessuto economico e sociale. Soddisfare gli interessi strategici dell’Italia, soddisfare gli appetiti immondi dei capitalisti-parassiti del nord e dei mafiosi del sud ha un prezzo, e quel prezzo lo devono pagare la Sardegna e i sardi. Il capitalismo italiano ha bisogno del suo spazio vitale, uno spazio che deve essere sgomberato da qualsiasi ostacolo, dagli abitanti e dai paesi.
I sardi non servono, serve però il territorio sul quale risiedono.
3. Tendenze attuali
Al di là degli interessi italiani, restano da misurare alcuni processi attualmente in corso, in primo luogo quelli di ordine demografico. Nel 2006 uno studio commissionato dalla regione ha elaborato un indicatore per misurare il malessere demografico, l’SMD (stato di malessere demografico). Questo indicatore possiede cinque intervalli: buono, discreto, precario, grave e gravissimo.
I risultati dello studio sono allarmanti. Il 43,7% dei comuni sardi (164) si trova in stato Grave o Gravissimo, e messi assieme coprono il 37,6% della superficie totale. Aggiungiamo il fatto che: “tra il 1991 ed il 2001 il 71,4% dei comuni della Sardegna hanno perso popolazione […] 32 ne hanno perso più del 20%, e 115 tra il 10% ed il 20%”[7]. Le aree che hanno perso di più sono quelle centrali, interne e meno servite dalla viabilità. I poli di attrazione sono invece le aree attorno a Cagliari e Olbia.
Alla migrazione interna va ad aggiungersi la migrazione verso l’esterno della Sardegna, fenomeno che l’Istat non riesce a rilevare nella sue reali dimensioni, in quanto si basa solamente sul vecchio metodo della misurazione dei cambi di residenza, attualmente inadeguato. Sia per l’estendersi del lavoro precario, e quindi di una residenza precaria (impossibilità di comprarsi una casa), nonché per una caratteristica culturale che vede gli emigrati cercare di mantenere il legame con la loro terra, mantenendo la residenza anche per numerosi anni nel comune d’origine.
Altri studi però hanno utilizzato dei metodi più confacenti alla mutata situazione. Due ricercatori dello Svimez (Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno), ad esempio, hanno recentemente pubblicato uno studio in cui, analizzando anche la differenza tra le residenze e i luoghi di lavoro, hanno concluso che i flussi migratori attuali dal Mezzogiorno (comprendendo anche la Sardegna) sono tornati ai numeri del “grande esodo” del 1961-63[8].
A completare il dissesto demografico si aggiunge il tasso di fertilità: 1 figlio per famiglia, il più basso d’Europa, sostanzialmente uguale a quello del Giappone, la nazione più vecchia al mondo. Nel 2008 il tasso di natalità è stato di 8,1 per la Sardegna, 9,6 per il Mezzogiorno e sempre 9,6 per l’Italia, e quello del Giappone 7,6. Anche l’invecchiamento procede a passo spedito: nel 1992 gli ultrasessantacinquenni erano il 12,6% della popolazione, nel 2009 sono passati al 18,7%.
Infine, alcune ricercatrici dell’università di Cagliari hanno compiuto una proiezione demografica che vede la popolazione ridursi da 1.671.001 del 2008 a 1.230.453 nel 2047. Si tratterebbe di una riduzione del 27% rispetto al 2009.
Questi fenomeni si verificano in molte aree dell’Europa, Italia compresa, ma in Sardegna sono chiaramente eccezionali. Sono talmente intensi da trasformarsi in qualcosa di qualitativamente diverso. Se ad esempio fosse confermata la proiezione del 2047, cioè la perdita del 27% della popolazione in 37 anni, sarebbe possibile parlare di una sorta di genocidio. L’ONU definisce genocidio “ogni atto commesso con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso”. La distruzione di una parte consistente del gruppo etnico è evidentemente in corso, manca l’atto distruttivo, manca il carnefice. Un’altra obiezione è che un genocidio così diluito nel tempo, senza un carnefice ben definito, non può essere paragonato ai genocidi come quello armeno o degli ebrei. Resta il fatto però che con quel trend, da qui a cinquanta o sessanta anni, il popolo sardo sarà completamente annullato. Si tratta di un’estinzione, una uscita di scena dalla storia.
Qual è l’”habitat naturale” dei sardi? Chiaramente la Sardegna ma, non essendo animali, si tratta di un habitat sociale. Si tratta cioè di una società che possa garantire la sopravivenza fisica e culturale di un popolo. La società di oggi garantisce sempre meno la possibilità di sopravvivere sia fisicamente che culturalmente. Perciò le famiglie si impoveriscono, i giovani emigrano, la società invecchia e non si fanno più figli.
Torniamo all’immagine del sottosviluppo, la società deformata, il parassitismo della borghesia compradora[9], la dipendenza economica. L’economia sarda è totalmente schiacciata su tre principali attività economiche imposte dagli interessi italiani. Queste attività portano dinamiche demografiche dannose: oltre ai danni ambientali e sanitari causati dalla sperimentazione di uranio nei poligoni o dalle lavorazioni della Saras, va notata la coincidenza tra due fenomeni: il concentrarsi della popolazione sarda e dei flussi turistici nei due poli di Cagliari e Olbia. Questa relazione non è un caso. La popolazione si sposta verso i centri di maggiore affluenza dei turisti, nella speranza di avere maggiori possibilità in una zona economicamente più vitale.
BOX: Cagliari
Il caso di Cagliari e dell’area vasta che la circonda ha anche altre caratteristiche. Cagliari è anche il centro dell’apparato amministrativo e della borghesia compradora utilizzata dagli apparati di potere italiani (vedi caso Verdini-Carboni-Cappellacci) per governare per indiretta persona. La presenza ingombrante dell’apparato pubblico (solamente il comune di Cagliari ha 1.600 dipendenti, a fronte di 157.000 abitanti), da sempre gestito in maniera clientelare, ha permesso lo svilupparsi di un sistema parassitario e nemico di chi produce. Come ha scritto Ulf Hannerz, nelle ultime pagine di “Esplorare la città – Antropologia della vita urbana”, citando un lavoro di Anthony Leeds sul Brasile, “si tratta di un rapido schizzo delle differenze di stili urbani tra Rio de Janeiro e San Paolo. L’élite dirigente di tipo patrimoniale di Rio, dice Leeds, occupa posizioni […] la cui sensualità esprime ad un tempo la disponibilità a nuove alleanze e l’esclusività del proprio status. Ma tutti gli strati sociali della comunità carioca sono impregnati dell’atmosfera vacanziera del carnevale e delle spiagge. I componenti dell’élite impongono il loro ritmo a tutta la città […]. Al contrario, San Paolo è un punto di unione di élite commerciali e industriali, le cui attività sono favorite dalla privacy piuttosto che dal mettersi in mostra. L’ethos di Rio è quello di una città di corte, quello di San Paolo di una città mineraria”.
E l’ethos di Cagliari? È l’ethos di una città storicamente ricolma di capacità tecniche e di motivazioni per giustificare la mediazione e la cura di interessi esterni in Sardegna, che rifiuta chi produce, e che, anzi, invita chi produce a investire nella rendita. E, piano piano, ci si abitua. Anche se hai un’impresa che produce, che crea ricchezza, sei tentato a investire nel mattone, per capitalizzare sotto forma di rendita i risparmi di un’azienda, o di una vita. È il caso anche di tanti che, figli della Sardegna dell’interno, investono i risparmi della famiglia in una casa. Ma questo è un dettaglio, in confronto ad una borghesia cagliaritana che cerca il profitto facile. Le 3 M, si dice spesso: mattone, medici e massoni. Ci sarebbe da aggiungere la quarta M, relativamente nuova: l’arcivescovo Mani.
Il soffocamento economico generato dalle tre monocolture italiane lascia a numerosi sardi due sole possibilità: recarsi ai margini dei due centri più vitali della Sardegna o, meglio ancora, emigrare fuori Sardegna. Quei fenomeni demografici non sono casuali, sono fortemente influenzati dalla mancanza di uno sviluppo equilibrato e dagli squilibri creati dall’imposizione di una “mono-economia” sottosviluppata.
L’abnorme crescita della città di Cagliari si inserisce in questo contesto. Oggi l’area “metropolitana” comprende più di un quarto degli abitanti della Sardegna. Si potrebbe parlare di una “cagliarizzazione” dei sardi, cioè lo sradicamento culturale e la dissoluzione del tessuto comunitario in una periferia sempre più estesa ed anonima dove si ammassano i nuovi abitanti: che non è un luogo di creatività e fermento culturale, ma anzi lo si potrebbe definire una come una specie di camera di de-culturizzazione. I meccanismi sono complessi e controversi, e nascono dall’intreccio di vari fenomeni.
Vediamo la struttura occupazionale: gli occupati nel primo trimestre 2010 sono stati 580.000 (il 34,8%), i disoccupati 572.000 (34,3%), di cui cercano attivamente un’occupazione solo 112.000 (6,7%); la fascia di popolazione inattiva, cioè minore di 15 anni e maggiore di 64, è di 514.000 persone (30,8%).
Gli occupati nel primo trimestre del 2010 si dividono così: 32.000 nell’agricoltura, 116.000 nell’industria, e 433.000 nei servizi. Nel 2007 erano: 45.400 nell’agricoltura, 124.100 nell’industria e 450.900 nei servizi, di cui impiegati pubblici 152.700.
Nel 2007 il 24,6% degli occupati era sotto la pubblica amministrazione, percentuale che sale al 32,8% se teniamo conto dei soli occupati dipendenti. Si tratta del 9,2% della popolazione totale. La media italiana è del 25,9% sugli occupati dipendenti, e dell’8,3% sulla popolazione totale; la media del Mezzogiorno è del 32,7% sugli occupati dipendenti e dell’8,1% sulla popolazione[10].
Questo dato ci spiega molte cose. la percentuale dei pubblici dipendenti sugli occupati dipendenti è significativamente più alta in Sardegna rispetto alla media italiana e sostanzialmente uguale a quella del Mezzogiorno.
Se nel Mezzogiorno la pubblica amministrazione è un argine alla disoccupazione dilagante, in Sardegna diventa anche un mezzo per regolare la velocità e la direzione dello spopolamento. Non investire nella rete infrastrutturale secondaria, tagliare il numero di insegnanti, chiudere una scuola o un ufficio postale, sono decisioni che sono in grado di determinare spostamenti di popolazione da un comune all’altro. Non sono decisioni neutre. A questo bisogna aggiungere tutti quegli investimenti immateriali che vengono sistematicamente attuati solamente nelle città.
La dimensione accresciuta dell’impiego pubblico in Sardegna è una sorta di calmante o di anestetico a una situazione sociale esplosiva, a una rivolta che nei fatti c’è già nella forma di una sommossa latente delle fasce più penalizzate dal sottosviluppo. Esiste, quindi, la possibilità di influenzare l’intensità e la localizzazione di fenomeni demografici da parte del potere politico ed economico italiano. L’intensità dello spopolamento è stata tarata al livello più indolore, trovando un equilibrio tra gli interessi italiani e la sofferenza sociale in prossimità del punto limite della rivolta.
Ora se noi sovrapponessimo le proiezioni demografiche all’andamento politico ed economico il quadro che ci si prospetterebbe sarebbe quello della rottura del giocattolo in tempi brevissimi. Infatti, per evitare che lo sviluppo del sottosviluppo devasti completamente il tessuto sociale sardo è necessaria una certa quantità di spesa pubblica, per mantenere una percentuale della popolazione sotto le dipendenze dello stato, calmando la disoccupazione.
Intanto a livello mondiale la crisi ha preso le forme di una crisi del debito privato e, in seguito alle politiche messe in atto dalla maggior parte dei paesi, di una crisi del debito pubblico. In questo senso il peggio deve ancora arrivare (secondo le previsioni degli economisti arriverà nel 2012)[11]. In quell’anno andranno in scadenza i titoli tossici emessi dalle banche fino al 2007 e i debiti pubblici emessi per salvare i debiti delle banche fino al 2009. Tutto questo grumo di debito andrà in scadenza quasi contemporaneamente. L’attacco speculativo in atto contro i cosiddetti PIIGS (Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna) non è frutto del caso, e si inserisce nel contesto del tentativo di rapinare questi paesi da parte dell’alta finanza nordamericana.
Il fatto che l’Italia sia schiacciata in mezzo alle molteplici pressioni della crisi accelera a sua volta le pressioni che lo stato imprime sulla Sardegna, come si è visto dalla rapina dei fondi regionali FAS attuata immediatamente dopo la caduta della Giunta Soru. Il federalismo fiscale combinato con la manovra di bilancio avrà un effetto dirompente nella riduzione della spesa pubblica in Sardegna. Questo comporterà necessariamente una fortissima accelerazione di tutte le dinamiche di impoverimento e spopolamento: sarà una catastrofe sociale.
Le vie d’uscita sono due: o questa accelerazione porterà a un’estinzione del popolo sardo in tempi evidentemente ancora più brevi dei 60 anni ipotizzati o porterà uno squilibrio tale che la sofferenza sociale supererà il punto limite della sopportazione dando vita a qualche forma di ribellione o di sommossa.
Si tratta di una biforcazione catastrofica, un punto di non ritorno. Immaginiamo una mensola carica di libri: continuando ad aumentare il peso si arriverà al punto in cui aggiungendo un misero fascicolo la mensola cederà di colpo. Siamo alla vigilia della famosa goccia che fa traboccare il vaso. Se davanti all’imposizione del nucleare e di una situazione sociale sempre più insopportabile non ci sarà nessuna risposta lo stato avrà mano libera per estinguere definitivamente il popolo sardo, riducendolo di numero e concentrandolo nei dintorni di Cagliari e Olbia, e completando l’opera con l’annullamento culturale dei “sopravvissuti”.
Gli operai dell’Alcoa e della Vinyls sono una prima risposta. Il Movimento dei Pastori Sardi una seconda. La loro determinazione è un segnale: forse non assisteremo così passivamente alla nostra miserabile fine.
L’abnorme crescita della città di Cagliari si inserisce in questo contesto. Oggi l’area “metropolitana” comprende più di un quarto degli abitanti della Sardegna. Si potrebbe parlare di una “cagliarizzazione” dei sardi, cioè lo sradicamento culturale e la dissoluzione del tessuto comunitario in una periferia sempre più estesa ed anonima dove si ammassano i nuovi abitanti: che non è un luogo di creatività e fermento culturale, ma anzi lo si potrebbe definire una come una specie di camera di de-culturizzazione. I meccanismi sono complessi e controversi, e nascono dall’intreccio di vari fenomeni.
Vediamo la struttura occupazionale: gli occupati nel primo trimestre 2010 sono stati 580.000 (il 34,8%), i disoccupati 572.000 (34,3%), di cui cercano attivamente un’occupazione solo 112.000 (6,7%); la fascia di popolazione inattiva, cioè minore di 15 anni e maggiore di 64, è di 514.000 persone (30,8%).
Gli occupati nel primo trimestre del 2010 si dividono così: 32.000 nell’agricoltura, 116.000 nell’industria, e 433.000 nei servizi. Nel 2007 erano: 45.400 nell’agricoltura, 124.100 nell’industria e 450.900 nei servizi, di cui impiegati pubblici 152.700.
Nel 2007 il 24,6% degli occupati era sotto la pubblica amministrazione, percentuale che sale al 32,8% se teniamo conto dei soli occupati dipendenti. Si tratta del 9,2% della popolazione totale. La media italiana è del 25,9% sugli occupati dipendenti, e dell’8,3% sulla popolazione totale; la media del Mezzogiorno è del 32,7% sugli occupati dipendenti e dell’8,1% sulla popolazione[10].
Questo dato ci spiega molte cose. la percentuale dei pubblici dipendenti sugli occupati dipendenti è significativamente più alta in Sardegna rispetto alla media italiana e sostanzialmente uguale a quella del Mezzogiorno.
Se nel Mezzogiorno la pubblica amministrazione è un argine alla disoccupazione dilagante, in Sardegna diventa anche un mezzo per regolare la velocità e la direzione dello spopolamento. Non investire nella rete infrastrutturale secondaria, tagliare il numero di insegnanti, chiudere una scuola o un ufficio postale, sono decisioni che sono in grado di determinare spostamenti di popolazione da un comune all’altro. Non sono decisioni neutre. A questo bisogna aggiungere tutti quegli investimenti immateriali che vengono sistematicamente attuati solamente nelle città.
La dimensione accresciuta dell’impiego pubblico in Sardegna è una sorta di calmante o di anestetico a una situazione sociale esplosiva, a una rivolta che nei fatti c’è già nella forma di una sommossa latente delle fasce più penalizzate dal sottosviluppo. Esiste, quindi, la possibilità di influenzare l’intensità e la localizzazione di fenomeni demografici da parte del potere politico ed economico italiano. L’intensità dello spopolamento è stata tarata al livello più indolore, trovando un equilibrio tra gli interessi italiani e la sofferenza sociale in prossimità del punto limite della rivolta.
Ora se noi sovrapponessimo le proiezioni demografiche all’andamento politico ed economico il quadro che ci si prospetterebbe sarebbe quello della rottura del giocattolo in tempi brevissimi. Infatti, per evitare che lo sviluppo del sottosviluppo devasti completamente il tessuto sociale sardo è necessaria una certa quantità di spesa pubblica, per mantenere una percentuale della popolazione sotto le dipendenze dello stato, calmando la disoccupazione.
Intanto a livello mondiale la crisi ha preso le forme di una crisi del debito privato e, in seguito alle politiche messe in atto dalla maggior parte dei paesi, di una crisi del debito pubblico. In questo senso il peggio deve ancora arrivare (secondo le previsioni degli economisti arriverà nel 2012)[11]. In quell’anno andranno in scadenza i titoli tossici emessi dalle banche fino al 2007 e i debiti pubblici emessi per salvare i debiti delle banche fino al 2009. Tutto questo grumo di debito andrà in scadenza quasi contemporaneamente. L’attacco speculativo in atto contro i cosiddetti PIIGS (Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna) non è frutto del caso, e si inserisce nel contesto del tentativo di rapinare questi paesi da parte dell’alta finanza nordamericana.
Il fatto che l’Italia sia schiacciata in mezzo alle molteplici pressioni della crisi accelera a sua volta le pressioni che lo stato imprime sulla Sardegna, come si è visto dalla rapina dei fondi regionali FAS attuata immediatamente dopo la caduta della Giunta Soru. Il federalismo fiscale combinato con la manovra di bilancio avrà un effetto dirompente nella riduzione della spesa pubblica in Sardegna. Questo comporterà necessariamente una fortissima accelerazione di tutte le dinamiche di impoverimento e spopolamento: sarà una catastrofe sociale.
Le vie d’uscita sono due: o questa accelerazione porterà a un’estinzione del popolo sardo in tempi evidentemente ancora più brevi dei 60 anni ipotizzati o porterà uno squilibrio tale che la sofferenza sociale supererà il punto limite della sopportazione dando vita a qualche forma di ribellione o di sommossa.
Si tratta di una biforcazione catastrofica, un punto di non ritorno. Immaginiamo una mensola carica di libri: continuando ad aumentare il peso si arriverà al punto in cui aggiungendo un misero fascicolo la mensola cederà di colpo. Siamo alla vigilia della famosa goccia che fa traboccare il vaso. Se davanti all’imposizione del nucleare e di una situazione sociale sempre più insopportabile non ci sarà nessuna risposta lo stato avrà mano libera per estinguere definitivamente il popolo sardo, riducendolo di numero e concentrandolo nei dintorni di Cagliari e Olbia, e completando l’opera con l’annullamento culturale dei “sopravvissuti”.
Gli operai dell’Alcoa e della Vinyls sono una prima risposta. Il Movimento dei Pastori Sardi una seconda. La loro determinazione è un segnale: forse non assisteremo così passivamente alla nostra miserabile fine.
4. Le scelte dell’Unione Europea, le manovre economiche, Pomigliano
La crisi economica globale, e la connessa crisi della zona euro, non si risolveranno attraverso tagli ai salari, alle pensioni, allo Stato sociale, all’istruzione, alla ricerca, alla cultura e ai servizi pubblici essenziali, né attraverso un aumento diretto o indiretto dei carichi fiscali sul lavoro e sulle fasce sociali più deboli[12].
Piuttosto, si corre il serio pericolo che l’attuazione in Italia e in Europa delle cosiddette “politiche dei sacrifici” accentui ulteriormente il profilo della crisi, determinando una maggior velocità di crescita della disoccupazione. Nonostante ciò, queste sono le scelte di politica macroeconomica compiute a Bruxelles, a Roma e a Cagliari.
A Bruxelles si è decisa una politica di “contenimento della spesa”. Nei libri di storia il 2010 sarà descritto come l’anno della morte dello stato sociale, nascosto sotto il termine “contenimento della spesa”. Tagli ai salari, alle pensioni, alla sanità, all’istruzione, ai trasporti pubblici, ai servizi sociali. La stabilità di bilancio favorirà i paesi che, moderni mercantilisti, potranno esportare, e cioè attrarre ricchezza vendendo all’estero: Germania, paesi del nordeuropa e, in parte, Francia. In questo modo questi paesi resisteranno per almeno altri 3-4 anni. Gli altri al macero.
Se a gennaio 2010 nessuno immaginava, in Italia, il taglio dei salari dei dipendenti pubblici, non dobbiamo oggi pensare che sia finita qua. La manovra lacrime e sangue votata dal parlamento romano nell’estate2010, ma è solamente l’inizio. L’entità dichiarata della manovra aggiuntiva, sul 2011- 2012, è di 24 miliardi e 965 milioni di euro[13]. In realtà la manovra è assai più pesante, se si aggiunge il mancato rinnovo del contratto del pubblico impiego, non contabilizzato nella manovra, che vale secondo le stesse stime del governo 6,5 miliardi nel triennio, e l’intervento sulle pensioni delle donne.
Per le regioni a statuto ordinario si prevede un taglio di 4.000 milioni di euro per il 2011 e 4.500 per il 2012; per le regioni a statuto speciale meno 500 milioni per il 2011 e meno 1.000 per il 2012; per i comuni meno 1.500 per il 2011 e meno 2.500 per il 2012; per le province meno 300 milioni per il 2011 e meno 500 per il 2012. A questa cifra di ben 14,8 miliardi nel prossimo biennio vanno aggiunti gli effetti del taglio già deciso con la precedente finanziaria triennale: per il 2011 vanno sommati 1.800 milioni di tagli per i Comuni, 98 per le province, 1.500 per le Regioni. Con questi numeri gli enti locali non sono in grado di chiudere i bilanci.
Dopo il blocco dei salari, prima nel pubblico e poi nel privato, e l’aumento dei licenziamenti, la domanda aggregata italiana continuerà a scendere. Il recupero della capacità di esportare e produrre potrebbe essere dato da un investimento su istruzione, ricerca e innovazione, ma si sta facendo esattamente il contrario. La strada maestra, quindi, è un’ulteriore manovra correttiva, che porterà alla privatizzazione dell’acqua, al peggioramento del Sistema Sanitario Nazionale e ad una ulteriore diminuzione dei trasferimenti.
Tra 1-2 anni le regioni e gli enti locali rischieranno la bancarotta. Si andrà verso i licenziamenti, o la messa in part-time forzato, dei dipendenti pubblici. La transizione, dato il contesto, va in questa direzione.
La Sardegna non fa eccezione. La manovra regionale taglia il bilancio regionale per poco meno di 400 milioni di euro. L’anno scorso la massa manovrabile (cioè quella non legata a spese di gestione e obiettivi già definiti) era di circa 300 milioni di euro. Significa che ci sono tagli maggiori ai già fumosi impegni per lo sviluppo che ogni anno la giunta regionale presenta al momento dell’approvazione della finanziaria.
In Sardegna si bloccano gli stipendi dei dipendenti regionali, si diminuiscono le poste di bilancio di tutti gli assessorati, si procede alla privatizzazione dell’acqua (vedi Abbanoa) e si conferma la cattiva gestione della sanità. Un disastro. Il risultato sarà solamente la compressione della domanda aggregata e la vendita dei nostri tesori (acqua, coste, territorio, agricoltura, artigianato).
Gli operai FIAT e la FIOM, ultimo baluardo nella difesa di un sistema di relazioni sociali che fa riferimento alla Costituzione (in Sardegna questo sistema, a parte il settore pubblico, è quasi inesistente), stanno vivendo sulla loro pelle le decisioni politiche del padronato su come uscire dalla crisi: lo schiavismo. Non si tratta di ritorno al Novecento. Qua siamo ai primi del Novecento. Come ci racconta una operaia che ha conosciuto Valletta, “oggi siamo in una situazione peggiore”.
L’obiettivo, quindi, è la creazione e la guida del conflitto, non la discussione infinita sugli assetti istituzionali o le alleanze (come fanno i partiti del centrosinistra, Rifondazione Comunista compresa, in Sardegna e in Italia). Pensiamo di risolvere il conflitto di classe avendo qualche consigliere regionale, o provinciale, o comunale, o qualche assessore al lavoro? L’esperienza dovrebbe insegnare.
5. Quali prospettive?
Una porzione di popolazione, che non è quantificabile in questa sede, composta in prevalenza da giovani, è già “virtualmente morta”. Oggi in Sardegna con diversi gradi di intensità esiste un numero di persone che si possono dire “morte” sotto vari aspetti: culturale, economico, politico e dell’istruzione. Spesso sono giovani che abbandonano le scuole superiori (dato particolarmente elevato in Sardegna), che non lavorano, che non partecipano alla vita di una società. In questo contesto la droga e l’alcolismo diventano più che mai un’arma di sterminio.
Ma non sono solo loro ad essere “virtualmente morti”, lo sono specularmente anche gli emigrati, normalmente la parte più intraprendente di una società, che fintanto che sono via smettono di partecipare alla vita sociale, culturale ed economica della Sardegna. I figli di un “virtualmente morto”, se mai dovessero venire al mondo, sarebbero probabilmente costretti all’emigrazione, e i figli di un emigrato difficilmente decidono di tornare nella “terra dei padri”.
Sono le persone più svantaggiate a “morire virtualmente”, quasi come se potessero intuire il destino a cui andiamo incontro, rassegnandosi alla loro condizione, arrendendosi al potere.
I segni della disgregazione di una società sono già tutti visibili, e già loro senza bisogno di nessuna statistica, ci avvisano della fine a cui andiamo incontro.
Davanti a tutto questo serve che Rifondazione Comunista, il movimento anticolonialista, indipendentista e i singoli militanti della sinistra, prendano maggiore coscienza dei loro compiti, e che non si lascino andare alla rassegnazione e alla “morte virtuale” che oggi colpisce come una nuova malaria. È il momento dell'unità, ma dell'unità intorno ad obiettivi comuni che salvino la Sardegna dal disastro in cui la sta gettando una destra asservita e meschina.
I tempi sono ristretti, perché la prossima generazione, i figli dei ventenni e dei trentenni di oggi, non avrà più la forza e non sarà abbastanza numerosa per combattere le dinamiche accelerate dell’oggi. Bisogna fare dei passi da gigante in tempi brevi, e per giunta vanno fatti bene, non più lunghi della gamba, ma neppure incerti e senza equilibrio.
6. Un impegno
Si tratta di sollevare contemporaneamente più contraddizioni: quella di classe, quella nazionale, quella ambientale. Riassumere in un’unica lotta l’impegno per una società più giusta ed equa in equilibrio con l’ecosistema, il rifiuto dell’ordine mondiale e le pratiche neo-coloniali, la valorizzazione della lingua e alla rinascita culturale, insieme all'empowerment dei sardi e non l'eterna autodenigrazione e autodisprezzo, anticamera ideologica di ogni asservimento. È un’operazione faticosa, che richiede sacrificio e impegno, la capacità di superare inutili steccati ideologici e di andare oltre i numerosi approcci fallimentari, ma anche il riconoscimento di ciò che di buono è stato fatto in questa direzione da chi proviene da percorsi diversi dai nostri.
Per farlo bisogna ripartire dalla realtà e dalla società, senza pretendere di calare schemi preconfezionati e semplificati con ricette ripetitive. Bisogna essere rivoluzionari anche nel nostro approccio alla politica, e per fare questo non esistono scorciatoie. La stessa teoria marxista si è spesso trasformata, da utile strumento di analisi quale è, in paraocchi e liturgia: potremmo dire in una sorta di “morte virtuale”, politicamente parlando. Invece, seguendo proprio Marx, dovremmo sempre partire dal presente storico, dall'adesso, dall'analisi radicale e non conformista rispetto ai vari mantra del discorso pubblico che si produce in Sardegna.
Abbiamo bisogno di conquistare sovranità, bisogna cercare di mettere sotto il controllo democratico del popolo i processi economici, politici e sociali che stanno portando i sardi all’estinzione. Se è vero che la Sardegna si situa all’interno di rapporti economici, sociali e culturali classificabili con le categorie centro-periferia del sistema-mondo (Immanuel Wallerstein) è altrettanto vero che avremo un futuro se ribalteremo questa impostazione. Già questo è una rivoluzione. Al rapporto centro-periferia contrapponiamo un modello in cui la Sardegna è il centro. Noi siamo il centro di noi stessi, e vogliamo decidere da persone libere, e non da servi.
Sovranità e democrazia vanno di pari passo. E per democrazia non possiamo intendere la vuota liturgia borghese della delega quinquennale alla parassitica e collusa élite politica. Lottiamo per conquistare il controllo della nostra terra e della nostra vita, lottiamo per la democrazia. Ma questa lotta per la sovranità non può prescindere dalla ridefinizione dei rapporti di proprietà. Fintanto che una nazione resterà in balia della finanza, del grande capitale e degli interessi stranieri, non si potrà dire veramente sovrana e democratica. Il diritto di proprietà, inteso nel senso della grande proprietà come la Saras o i Forte Village, non può convivere con qualsiasi democrazia degna di questo nome. Il destino di una nazione non può essere deciso da Massimo Moratti, Emma Marcegaglia o Bernardo Provenzano.
Qualcuno nel mondo ha già lanciato un seme nella lotta per la conquista di questi diritti, una voce si è levata al grido di: “Patria, Socialismo o muerte”. L’alternativa, appunto, tra la lotta per la giustizia o l’estinzione.
Gli autori del documento sono Jacopo Bene e Enrico Lobina
Sottoscrittori
Le adesioni provengono da militanti di diversi percorsi politici, che vogliono dare un segnale, cercando di stimolare un confronto e un dialogo che vada oltre gli steccati ideologici e i confronti sulle etichette. Si tratta di un primo passo, non certo di un punto di arrivo: è necessario studiare a fondo la realtà sarda per trovare le strategie necessarie a invertire i processi di disgregazione sociale e culturale del popolo sardo. Questo è un processo aperto e trasparente, che ci auspichiamo possa raggiungere la massima unità. Non ci interessano, quindi, le sterili discussioni sui posizionamenti all’interno delle singole organizzazioni. Vogliamo costruire la nuova classe dirigente di Sardegna, che nascerà attraverso un conflitto duro e profondo. Questo è il nostro compito storico.
Questo documento è stato finora sottoscritto da singoli appartenenti alla sinsitra antagonista sarda e da militanti di Arbeschida Sarda, Giuventudi Indipendentista, Rifondazione Comunista, Rossomori, Sardegna Democratica e Sinistra Critica.
_____________________________________________
Note:
[1] Si vedano i rapporti ed il materiale prodotto dal Comitato “Gettiamo le Basi”.
[2] Dall’inchiesta: “Guerre Stellari” di MAURIZIO TORREALTA, intervista all’ex analista del Pentagono, giornalista del Washington Post William Arkin. http://www.rainews24.it/ran24/inchieste/guerre_stellari_iraq.asp.
[3] Elaborazione da dati Istat.
[4] SARDEGNA STATISTICHE, “Aziende Guida 2007”, in www.sardegnastatistiche.it.
[5] Elaborazione di Unioncamere su dati Istat.
[6] FABRIZIO GATTI, “Vento di mafia”, in L’Espresso, 29 aprile 2010.
[7] ENRICO LOBINA “La Sardegna verso il declino demografico”. http://www.sardegnademocratica.it/index/sociale/articolo/24202/la-sardegna-verso-il-declino-demografico.html
[8] LUCA BIANCHI, GIUSEPPE PROVENZANO, Ma il cielo è sempre più su? L’emigrazione ai tempi di Termini Imerese, Castelvecchi, Roma 2010.
[9] Termine nato nei paesi coloniali per definire l’élite locale totalmente improduttiva e parassitaria, di fatto connivente col sistema coloniale.
[10] Elaborazione su dati Istat 2008.
[11] Si faccia riferimento al sito http://www.economiaepolitica.it.
[12] Brano tratto dalla Lettera degli economisti del 15 giugno 2010, http://www.economiaepolitica.it/index.php/europa-e-mondo/lettera-degli-economisti.
[13] Vedi ROBERTA FANTOZZI, ANTONIO FERRARO, MARCO NESCI, VITO MELONI, RAFFAELE TECCE, Antipopolare e classista. E non risolve la crisi. L’analisi della manovra¸ reperibile su www.rifondazione.it
[2] Dall’inchiesta: “Guerre Stellari” di MAURIZIO TORREALTA, intervista all’ex analista del Pentagono, giornalista del Washington Post William Arkin. http://www.rainews24.it/ran24/inchieste/guerre_stellari_iraq.asp.
[3] Elaborazione da dati Istat.
[4] SARDEGNA STATISTICHE, “Aziende Guida 2007”, in www.sardegnastatistiche.it.
[5] Elaborazione di Unioncamere su dati Istat.
[6] FABRIZIO GATTI, “Vento di mafia”, in L’Espresso, 29 aprile 2010.
[7] ENRICO LOBINA “La Sardegna verso il declino demografico”. http://www.sardegnademocratica.it/index/sociale/articolo/24202/la-sardegna-verso-il-declino-demografico.html
[8] LUCA BIANCHI, GIUSEPPE PROVENZANO, Ma il cielo è sempre più su? L’emigrazione ai tempi di Termini Imerese, Castelvecchi, Roma 2010.
[9] Termine nato nei paesi coloniali per definire l’élite locale totalmente improduttiva e parassitaria, di fatto connivente col sistema coloniale.
[10] Elaborazione su dati Istat 2008.
[11] Si faccia riferimento al sito http://www.economiaepolitica.it.
[12] Brano tratto dalla Lettera degli economisti del 15 giugno 2010, http://www.economiaepolitica.it/index.php/europa-e-mondo/lettera-degli-economisti.
[13] Vedi ROBERTA FANTOZZI, ANTONIO FERRARO, MARCO NESCI, VITO MELONI, RAFFAELE TECCE, Antipopolare e classista. E non risolve la crisi. L’analisi della manovra¸ reperibile su www.rifondazione.it
Tutti i commenti d'ora in poi dovranno essere approvati. A tale fine sarà necessario firmarli.
RispondiEliminadocumento interessante, di cui condivido molto.
RispondiEliminasolo una domanda:
cosa proponete di fare per "conquistare sovranità"?