Introduzione
Ogni 4-5 anni i pastori sardi scendono in piazza. Scavalcando le associazioni di categoria, i cui apparati sono poco propensi alla lotta, i pastori esprimono un profondo e duraturo disagio del settore pastorale, dell’agricoltura e delle aree rurali.
Il primo è quello della agroindustra. L’obiettivo è competere sui mercati globali, trasformare lo stesso concetto di cibo e considerare il settore agricolo come un qualunque settore dell’economia. In epoca di globalizzazione finanziaria, a questa ricetta si aggiunge la finanziarizzazione dell’agricoltura (vedi crisi dei prezzi) ed il dominio dei monopoli (altro che libera concorrenza). Vedi alla voce Monsanto, o alla voce Parmalat. E, nel caso sardo, alla voce Pecorino Romano.
Il secondo modello, rappresentato a livello internazionale da La Via Campesina, mette al centro i produttori, compresi quelli piccoli e piccolissimi, il rapporto con l’economia locale, con l’ambiente e con la salute. Tutte variabili che gli economisti e l’Unione Europea, cioè quelli che comandano e che guardano alla agroindustra, non considerano. Il secondo modello è quello della sovranità alimentare.
In Sardegna, nonostante si sia in una crisi di sistema, questo dibattito non esiste. Si sostiene a prescindere il primo modello, che sarebbe quello sostenuto, tra gli altri, da Luca Zaia (Lega Nord), Giancarlo Galan (PdL), ma anche da Andrea Prato e Paolo De Castro (PD), nonché dall’UE.
Noi sosteniamo il secondo modello. Siamo tra i primi a sostenerlo pubblicamente in Sardegna. E ci misuriamo nel concreto. Vogliamo offrire una alternativa. I nostri problemi non sono diversi da quelli degli altri popoli con forte caratterizzazione rurale (quasi tutti).
Con il documento “Terra e soberania: progetto terra sarda” vogliamo dire a tutti i nostri fratelli, sorelle, parenti più lontani, colleghi, amici, che noi ci ribelliamo. E vogliamo trovare, insieme, delle soluzioni.
Non vogliamo un documento istituzionale. Non vogliamo dire alla regione quello che deve fare. Non ci speriamo molto. Vogliamo ragionare (perché le soluzioni si trovano tutti insieme) con chi in campagna ci lavora e nelle zone rurali ci abita. Perché insieme possiamo rivoltare la nostra terra. E costringere chi sta in viale Trento o a Montecitorio a fare ciò che vogliamo.
La salvezza della Sardegna sono i sardi.
La situazione agropastorale sarda
“I dati ISTAT sulla produzione lorda vendibile [....] indicano per il 2009 un lieve aumento, rispetto alla media del triennio precedente, delle coltivazioni agricole (+ 2%) e degli allevamenti zootecnici (+4%). Tra le prime, crescono in particolare ortaggi e patate, frutta e agrumi (+31%). In netto calo, viceversa, le produzioni di cereali (-40%), di prodotti vitivinicoli e dell’olivicoltura. Tra i prodotti zootecnici alimentari, si segnala [...] una lieve diminuzione della produzione [...] di carni e un aumento di quella del latte”[2].
Un’indicazione sui cambiamenti verificatisi nel corso del 2009 viene offerta dal raffronto tra i prezzi dei prodotti agricoli venduti e i prezzi di beni e servizi acquistati dagli agricoltori[3].
L’analisi ISTAT mostra che in tutto il periodo tra il 2005 al 2008 l’indice dei prezzi dei prodotti venduti si colloca su livelli prossimi a quello dei beni acquistati, mentre nel 2009 si rileva un notevole allargamento della forbice causato dalla netta discesa dei prezzi dei prodotti agricoli. A fronte di un aumento dei costi vi è una diminuzione dei ricavi.
Si registra una decrescita pari a -2,9% delle imprese agricole, a fronte della media dell’1,6% riferita al triennio precedente[4].
L’occupazione in agricoltura mostra nei trimestri centrali del 2009 un calo significativo rispetto allo stesso periodo del 2008 (-13% e -21%), mentre nell’ultima parte dell’anno torna ad assestarsi sui circa 34 mila occupati dell’ultimo trimestre del 2008, dato però già influenzato negativamente dalla grave ondata di maltempo che colpì la Sardegna fra ottobre 2008 e gennaio 2009.
Tali variazioni tendenziali, anche se influenzate da fattori di breve periodo, parrebbero indicare in Sardegna un maggiore impatto della recessione rispetto al Mezzogiorno e al resto d’Italia, in cui le variazioni sono di segno analogo, ma più contenute, e ciò nonostante una decrescita più marcata nel valore aggiunto nazionale. Questo significa che in Sardegna si continua a produrre, a differenza del Meridione e del resto d’Italia, e gli occupati tuttavia diminuiscono più velocemente.
La crescita negativa del comparto, le dinamiche dei prezzi e il clima di fiducia influenzato dalla fase recessiva hanno determinato nel 2009 un rallentamento degli investimenti fissi lordi. Le imprese agricole hanno sofferto di carenza di liquidità e di difficoltà di accesso al credito, legate sia alla crisi generale sia alle difficoltà del settore bancario: si stima un indebitamento totale di 722 milioni di euro, con sofferenze pari a 184 milioni di euro, pari al 25,5% degli impieghi ed all’11,49% del fatturato complessivo[5].
Per quanto riguarda le esportazioni, queste hanno segnato dopo la drastica flessione nel 2008 - anno in cui l’export cala da 8,2 a 3,7 milioni di euro – un’ulteriore discesa, anche se più contenuta, pari a - 17%. A tale andamento ha contribuito in gran parte il calo delle esportazioni verso altri paesi dell’Unione Europea (-46%).
A questo contesto generale andrebbe aggiunta un’analisi puntuale della Grande Distribuzione Organizzata (GDO) e sulla importazione di prodotti. Per quanto rigaurda l’import di prodotti alimentari, benchè manchi una base dati scientifica, è sapere comune che la grande maggioranza delle necessità alimentari sarde vengono soddisfatte attraverso l’import di prodotti. Per quanto riguarda la GDO, si tratta, specie nelle aree urbane, di una vera e propria avvenuta invasione.
Il contesto globale
La crisi agricola, come sottolinea il relatore speciale ONU per il diritto al cibo, è sempre più strutturale[6]. Una delle contraddizioni principali che il capitalismo non può superare è quella agricola. Una parte enorme della popolazione mondiale muore di fame a causa del modello agricolo dominante. Vi sono responsabilità, oltre che dei paesi occidentali, delle élite dominanti nei cosiddetti Paesi in Via di Sviluppo (PVS).
Lo sfruttamento dissennato delle risorse agricole ed energetiche da parte delle multinazionali, nei paesi poveri, genera guerre interne, fame e migrazioni[7]. Ma anche nella parte del mondo “ricca”, lo sfruttamento delle risorse ambientali è accompagnato da quello umano attraverso la "precarizzazione" del lavoro delle nuove generazioni e lo schiavismo moderno dei migranti.
Il controllo delle produzioni e della commercializzazione mondiale è in mano a poche multinazionali. “Nel 2007, la statunitense Monsanto figurava di gran lunga al primo posto con quasi 5 miliardi di dollari di vendite, seguita da DuPont (USA; 3,3), Syngenta (Svizzera; 2,0), Limagrain (Francia; 1,2), per un valore complessivo delle vendite delle prime tre aziende equivalente al 47% del mercato commerciale delle sementi, mentre le prime 10 multinazionali del settore arrivano a 14,8 miliardi di dollari e al 67% delle vendite mondiali, in salita rispetto al 49% di soli due anni prima o al 37% del 1996”[8].
Le monocolture impoveriscono le popolazioni e distruggono la biodiversità. Un esempio arriva dal Brasile, dove Nestlè e Parmalat negli anni 90 misero fuori mercato circa 50 mila piccoli produttori lattiero-caseari facendo cambiare gli standard di raccolta e conservazione del latte.
Queste aziende hanno guadagnato dalle crisi degli ultimi anni. “Monsanto, il primo gruppo mondiale nel commercio dei semi, ha riportato un 44% di aumento dei guadagni nel 2007. DuPont, il secondo in classifica, ha dichiarato che i suoi profitti sono aumentati del 22%, mentre Syngenta, che guida il mercato dei pesticidi ma è terzo tra i colossi dei semi, ha visto le sue entrate crescere del 28% nel solo primo quadrimestre del 2008. Procedendo nella filiera verifichiamo che anche i grandi trasformatori alimentari, alcuni dei quali sono anche grandi traders, stanno incassando parecchio. Nestlé […] ha aumentato le sue vendite globali del 7%. Anche per i supermercati la crisi alimentare […] sembra portare […] un grande business. La catena inglese Tesco ha registrato un aumento nei guadagni del 12,3% in più rispetto allo scorso anno, un rialzo record. La francese Carrefour e la statunitense Wal-mart hanno affermato che le vendite di alimentari sono la voce principale che ha incrementato il loro aumento di fatturato”[9].
Il cibo diventa merce e, al contrario di quanto si pensi, il cibo-merce per essere prodotto, distribuito e commercializzato divora moltissimo petrolio[10]. La meccanizzazione del ciclo produttivo, la produzione e l'utilizzo di fertilizzanti chimici, pesticidi e anti-parassitari, il trasporto del prodotto finito da una parte all’altra del mondo, dimostra come la produzione agricola mondiale dipenda dal "petrolio". Per cui la crisi energetica influenza negativamente la produzione agricola mondiale, e il problema dell'alimentazione mondiale diventa ingovernabile.
Questo sistema sfrutta la terra per “convertire” il petrolio in cibo, il cibo in merce, e la merce ha bisogno di petrolio. Ormai da qualche anno vengono prodotti in grandi quantità i bio-carburanti. Questo sistema economico non ce lo possiamo più permettere.
L'aumento mondiale dei prezzi dei beni alimentari ha diverse cause. La principale è la speculazione del capitale finanziario.
La PAC
La Politica Agricola Comunitaria (PAC) è lo strumento attraverso il quale si programma e attua la politica agricola nell’Unione. Ciclicamente, la PAC viene sottoposta a critiche. Si dice “il 40% circa del bilancio comunitario è destinato al sostegno dell’agricoltura. È uno scandalo!”.
Questa facile demagogia non tiene conto del fatto che, a livello statale, i finanziamenti all’agricoltura sono miseri. In altri termini, quel 40% di fondi europei destinati all’agricoltura sono il contraltare del fatto che a livello statale si sono spostati i capitoli di bilancio agricoli a Bruxelles.
Sulla PAC bisogna essere chiari: essa ha prodotto profonde distorsioni, a partire dallo stesso tessuto sociale e produttivo comunitario, ed urge una sua radicale riforma. La PAC ha aiutato gli agricoltori ricchi e la grandi imprese, cioè chi disponeva di terra e capitali.
“Secondo i dati ufficiali della Francia, nel 2006 il 56% degli aiuti finiva nelle tasche del 20% delle 390.000 aziende beneficiarie, mentre al 20% delle aziende che hanno ricevuto le somme più basse è andato solo l’1% degli aiuti; il gruppo Doux, primo nella classifica francese dei beneficiari PAC, è una multinazionale del pollame che iscrive a bilancio nella voce sussidi 62,8 milioni di euro. Per quanto riguarda l’Italia, i poco più di 5,5 miliardi di euro a disposizione di circa un milione di aziende vedevano il 10% dei percettori beneficiare del 69% dei pagamenti, […] vantando 4 delle prime 5 società milionarie nel novero di poco più di 700 gruppi che ricevono dalla PAC oltre un milione di euro l’anno. […] La Italia Zuccheri Spa, nell’esercizio finanziario 2008 ha ricevuto 139.754.718,60 euro, cioè quasi 140 milioni; non è andata male neanche alla Eridiana sadam Spa, che ha incassato oltre 125 milioni di euro, mentre la Maccarese Spa, una delle aziende di proprietà della famiglia Benetton, sempre nel 2008 ha beneficiato […] di 1.234.099,68 euro”[11].
In questi mesi si discute della riforma della PAC post-2013. Stupisce il silenzio della Sardegna.
La crisi del capitalismo?
Il sistema capitalista dai connotati finanziari, il “turbo capitalismo”, è capace di giustificare tutto con la fede nell’autoregolamentazione del mercato. Il legame tra globalizzazione neoliberista e finanziarizzazione dimostra la fragilità di un modello basato sulla speculazione finanziaria, che sempre più si distanzia dall'economia reale. Un vero e proprio collasso strutturale del sistema. Il capitalismo finanziario non produce ricchezza ma soldi, non produce valore ma circolazione e moltiplicazione di contratti/soldi virtuali. Un’economia di carta fuori controllo.
La crisi economica mondiale è in atto da tempo, ed è affiancata da quella energetica, idrica, climatica.
Crisi energetica
Il picco del petrolio, (che secondo l'IEA, International Energy Agency, inizierà a partire dal 2011\2012,) segnerà l'inizio dell'esaurimento dei combustibili fossili. Dunque con il ritmo dei consumi energetici attuali, in 20/30 anni ci si avvierà verso l'esaurimento delle fonti di energia non rinnovabile. Per sopperire a questo fabbisogno energetico non basterebbero 5.350 nuove centrali nucleari che, a parte le considerazioni ecologiche, sono irrealizzabili anche da un punto di vista economico. L'energia prodotta da fonti rinnovabili, invece, può soddisfare attualmente solo il 30\35% del fabbisogno, ma è da questa disponibilità che si deve ripensare il consumo energetico[12].
Crisi idrica
Il crescente fabbisogno d'acqua per uso industriale, l'aumento del consumo totale in agricoltura (a parità di produzione oggi si impiega più acqua rispetto al passato) la crescita delle metropoli, la privatizzazione dell’acqua e la diminuzione della sua disponibilità a causa dell'inquinamento, fa si che in diverse parti del mondo siano iniziate le "guerre per l'acqua".
Crisi climatica
L'aumento della temperatura terrestre causa con maggiore frequenza alluvioni e siccità, accresce la frequenza di tornado e uragani, favorisce lo scioglimento del permafrost e dei ghiacciai con conseguente aumento dell'effetto serra e innalzamento dei mari .
Chi deve pagare questa crisi?
Devono essere le generazioni che si troveranno a vivere senza lavoro con un ambiente inquinato, senza risorse energetiche e alimentari sufficienti, a pagare la crisi?
Noi pensiamo che questa crisi la debbano pagare coloro che l'hanno prodotta. Ma questo non succederà. Tocca a noi, quindi, trasformare la crisi in un'occasione per sperimentare proposte alternative ed attuare percorsi di autogoverno attraverso iniziative dal basso e lotte, che portino all’affermazione di fondamentali diritti collettivi.
Una riconversione degli apparati produttivi, del modello di consumo e distribuzione delle risorse sia a livello internazionale che locale è ineludibile. Ma per imprimere a questa riconversione una direzione sostenibile occorre definire per tempo programmi e obiettivi condivisi da larghe maggioranze e gruppi sociali eterogenei.
Siamo chiamati a superare gli attuali limiti in cui ci troviamo, nella prospettiva storica di un nuovo socialismo che sappia coniugare ciò che fino ad oggi l’umanità ha tenuto disgiunti: eguaglianza e libertà, democrazia e autorità, individuo e comunità, civiltà e natura, rivoluzione e tradizione.
Sardegna: un passo indietro. Il Piano di Rinascita
Il Piano di Rinascita della Sardegna va inquadrato in un contesto di forte disagio socio economico e di spinta da parte delle Camere del Lavoro (CdL) e dei partiti politici di sinistra, nonché di rivendicazioni da parte della Giunta Regionale.
La Sardegna del dopoguerra ha un’economia caratterizzata dal settore agricolo e pastorale. Mentre il settore secondario è rappresentato da artigianato e piccole imprese edili, il settore dei servizi è limitato alla pubblica amministrazione ed al commercio nei centri urbani. La sola realtà industriale è rappresentata dall'attività mineraria, concentrata nel Sulcis-Inglesiente, che però non sviluppa un’economia di indotto.
Il primo piano di Rinascita (1962), finanzia opere di infrastrutturazione e industrializzazione, con il preciso di obiettivo di indebolire le strutture socio-economiche agro-pastorali, ritenute responsabili del fenomeno del banditismo.
Il Piano avrà un’impronta tecnicistica, con centralizzazione delle decisioni a livello statale e creazione di poli industriali. Si disattendono le rivendicazioni delle CdL e dei partiti di sinistra, che proponevano un piano inteso come pianificazione strategica per lo sviluppo socio-economico a tutto campo, compresa una riforma agricola basata sulle specificità locali.
Nel 1969 le indagini di una Commissione appositamente istituita rimarcano il legame tra banditismo e insufficiente diffusione verso l’interno degli effetti di benessere sociale generati dal Piano. Viene deciso l’allestimento di un nuovo polo di sviluppo ad Ottana. L’urgenza dell’intervento e la necessità di prevedere risultati in termini occupazionali (il programma di intervento prevede quasi 8.000 addetti tra attività principale ed indotto) spingono la pianificazione nazionale a puntare ancora una volta sulla petrolchimica a partecipazione statale, ignorando le perplessità sollevate da molti.
Solo il terzo Piano di Rinascita, di fronte alle critiche relative al rapporto investimento-addetto troppo elevato, con ricadute inferiori alle attese, ed al ragionamento sul fatto che l’immissione di moderne attività industriali esogene genererebbe un automatico disimpegno nei confronti del territorio, come testimoniato dalla difficoltà di creazione di indotto, viene reindirizzato. Ci si orienta verso la piccola-media impresa. Nel settore primario si punta alla riforma del sistema agropastorale (43% dei fondi). Questa fase prevede una maggiore centralità della Regione.
A differenza di quanto avveniva con la L. 588/1962, la ratio che informa la legge di rifinanziamento è quella dei progetti speciali, non di un unico grande strumento di pianificazione globale. Una serie di crisi politiche nella Giunta regionale ad inizio anni ‘80, in un contesto che sta vedendo esaurirsi l’intervento straordinario per il Mezzogiorno, sanciscono la conclusione dell’esperienza della Rinascita: nel 1982 è definito il programma per l’utilizzo dell’ultima annualità prevista dalla legge, che vede prevalere, forse per la prima volta, una logica localistica e spartitoria.
Seppur nel breve e medio periodo queste cattedrali nel deserto abbiano contribuito ad aumentare l'occupazione ed il reddito, si deve fare i conti con i danni creati all'ambiente e alla salute dei residenti nei pressi di tali poli industriali, ed al disagio socio-economico derivato dalla loro dismissione. Il processo di esodo dall’agricoltura, che ha visto ridursi dal 50% al 10% del totale gli occupati del settore primario in Italia nel giro di 80 anni, in Sardegna ha luogo in meno di 30 anni; tuttavia, è il terziario e non l’industria a fungere da settore di riequilibrio.
Sardegna e agricoltura
La Sardegna, oggi, è senza dubbio una periferia dell'impero, in cui vengono costantemente realizzate la rapina delle risorse primarie, economiche ed umane. Le politiche neoliberiste hanno accentuato fenomeni di alta disoccupazione e crescente povertà. Delle glorie dei Piani di Rinascita rimangono frutti avvelenati: smembramento del tessuto sociale originario, offese alla cultura autoctona, spopolamento forzato dei piccoli centri e un tessuto industriale disintegrato.
Per la "colonia" Sardegna i guru dell'economia globale puntano sull'espansione smisurata del turismo di massa e d'élite e sulle energie, concentrando nell'isola la produzione energetica da eolico, nucleare ecc., e sulla filiera militare, tutto a scapito delle attività produttive endogene[13].
Il settore agroalimentare rappresentava fino a "ieri" un’eccezione economica. Nel 1996 le esportazioni dei prodotti agricoli costituivano il 10% delle esportazioni totali. Oggi siamo al 3,5%.
In questo 3,5% di prodotto esportato quello prodotto da allevamento ovino è pari al 24%, circa, 406 milioni di euro (dovuto principalmente all'esportazione di pecorino romano).
Il settore ovino, quindi, è il settore trainante dell'economia agroalimentare della Sardegna. È costituito da circa 13.000 aziende di produzione, che occupano circa 30.000 persone tra pastori e operai, e da 85 imprese per la trasformazione del latte, di cui 30 cooperative.
BOX – IL SETTORE OVINO[14]
Mentre in Europa il numero di capi ovini, tra il 1987 ed il 2007, è diminuito del 53%, in Sardegna non si registrano scostamenti significativi. Nel 1980 i capi ovini erano 3.020.000, per salire a 4.296.800 nel 1995 e, nel 2008, sarebbero diminuiti sino a 3.558.200.
Secondo l’ultima rilevazione ufficiale (2007), le aziende operanti nel settore sono poco meno di 13 mila, pari al 19,4% delle unità censite. Le unità specializzate sono stimate in 9-10.000. Le imprese di grosse dimensioni (>500 capi) sono meno del 10% del totale, mentre circa il 25% hanno meno di 100 capi. La situazione debitoria aziendale media è meno drammatica degli altri segmenti produttivi agricoli.
Il latte fornisce circa il 75% del prodotto aziendale. La produzione media è di circa 8.000 quintali per unità produttiva.
Dato che gran parte del prodotto si concentra su 5-6 imprese di trasformazione, la struttura della trasformazione è fortemente polarizzata: da una parte micro-aziende, dall’altra gli operatori leader i quali dettano le regole.
Il “Pecorino Romano” è una monocoltura. I quantitativi assorbiti dal mercato statunitense sono in continua diminuzione. Il “Pecorino sardo” ha volumi complessivi molto bassi rispetto al resto dei formaggi “semicotti” prodotti in Sardegna. La DOP, quindi, non funziona adeguatamente.
Dal punto di vista della struttura aziendale, l’impresa pastorale si è stabilizzata su una salda base fondiaria: il tasso di intensità fondiaria si attesta su almeno 2.000 euro per ettaro di SAU, con punte di 7-9.000 euro. Più aumenta la taglia dell’azienda, minore è la quantità di lavoro richiesta. Più aumenta la taglia dell’azienda, inoltre, minore è la resa per capo.
Dal punto di vista dei ricavi, la produzione vendibile per pecora è mediamente di 222 euro (valori estremi 155 euro e 287). Il 58% è attribuibile alla vendita del latte e del formaggio, il 15,1% alla vendita della carne ed il 26,3% a premi o indennità varie. La remunerazione per litro varia da un minimo di 0,70 euro ad un massimo di 0,85 euro. I costi, invece, si attestano a 0,97 euro per litro.
Le aziende di produzione hanno smesso di diversificare la produzione concentrandosi sulla monocoltura della pecora. Sono stati sfruttati in questo modo anche suoli di pregio che avrebbero potuto essere utilizzati per altre produzioni. Mentre la concentrazione delle aziende in siti unici ha impoverito la produzione agricola, e avviato alcune zone verso la desertificazione.
Oggi le esportazioni del pecorino romano sono crollate. Il modello pecorino romano è fallito. L'intero settore produttivo è sotto il ricatto degli industriali del settore di trasformazione e commercializzazione, che si rifanno delle mancate vendite abbassando il prezzo del latte.
Il Movimento Pastori Sardi (MPS) e le associazioni di categoria sino ad ora non hanno risposto allo stato di crisi con un progetto articolato di salvaguardia e rilancio dell'intera filiera.
In particolare, l’MPS giustamente scrive che “Oggi […] si contesta […] il Sistema nel suo complesso”[15]. Ciononostante, le più importanti richiesta che l’MPS presenta, di seguito riportate, trattano di assistenza a breve termine, che non risolve i problemi.
Infatti, la loro piattaforma prevede:
- Moratoria per i debiti e per i contributi, aumento del de minimis;
- Energia ed acqua gratuiti;
- Ripristino delle restituzioni comunitarie;
- Rimodulazione del PSR;
- Centro regionale di stoccaggio.
L’MPS, invece, ha ragione quando sostiene che “il problema vero è il Pecorino Romano”[16].
Pericoloso risulta essere il "desiderio" di esportare il latte sardo. Con questa proposta si rafforzano oggettivamente gli industriali. Infatti il trasferimento di una quota significativa di latte sardo danneggerebbe il sistema delle piccole e medie cooperative di trasformazione che, attraverso la redistribuzione del reddito ai soci, sono le sole ad avere interesse verso uno sviluppo del comparto. A noi toccherebbe importare il prodotto finito, e i produttori stessi domani risulterebbero più deboli.
I dati che riportiamo non fanno che dare conferma a quanto scritto. Il prezzo del latte ovino presso la cooperativa LAIT di Ittiri è più elevato del prezzo medio sardo. Un prezzo più elevato del latte si può raggiungere, se viene opportunamente prodotto e trattato.
Prezzo medio del latte ovino in Sardegna | ||||||
2001 | 2002 | 2003 | 2004 | 2005 | 2006 | |
Euro | 0,85 | 0,73 | 0,67 | 0,67 | 0,51 | 0,57 |
Prezzo del latte ovino presso la cooperativa LAIT di Ittiri | ||||||||
2001 | 2002 | 2003 | 2004 | 2005 | 2006 | 2007 | 2008 | |
Euro | 0,96 | 0,86 | 0,74 | 0,62 | 0,64 | 0,82 | 0,87 | 0,90 |
La nostra lotta
I pastori e i lavoratori del settore devono lottare insieme, contro gli industriali che sfruttano gli uni e gli altri, per rilanciare un settore fondamentale per l'economia sarda. Bisogna pensare ad un futuro immediato che trasformi l'intero sistema attraverso l'incentivazione di produzioni biologiche, rispettose della biodiversità e degli equilibri ambientali, diversificata, multicolturale, multifunzionale, di prossimità ai centri di trasformazione e di consumo degli alimenti. Decisivo sarà riconvertire la destinazione dei suoli a funzioni multiple.
Il comparto agro-pastorale per la Sardegna è una ricchezza da non perdere, ma da rivalutare e rilanciare. Le risorse finanziarie vengano spese in modo virtuoso e destinate a finanziare un progetto reale di trasformazione, per avviare il primo passo verso l'autosufficienza alimentare ed energetica.
Dobbiamo innescare un processo complessivo di grande respiro mettendo al primo posto il lavoro e un nuovo potere delle comunità locali, che coinvolga lavoratori e società civile. Mettiamo in piedi un processo di democratizzazione della catena alimentare e della commercializzazione.
La trasformazione deve coinvolgere tutti i soggetti sociali: aziende agricole, associazioni di categoria, sindacati, enti locali, università, sino ad arrivare al consiglio regionale.
Lo spopolamento delle aree rurali
Non si può parlare di sviluppo rurale senza tenere conto dello spopolamento. Crisi dell’economia rurale, peggioramento della qualità della vita e spopolamento delle zone interne vanno oggi di pari passo, alimentandosi a vicenda. Nel Programma Regionale di Sviluppo 2007-2009 (PRS) se ne prese atto:
“L’assetto territoriale della Sardegna si caratterizza per la storica fragilità dell’armatura urbana e per la prevalenza del tessuto rurale. Questa condizione […] si è profondamente modificata dando luogo a una migrazione interna epocale, […] quasi un sardo su tre si è riversato dall’interno verso la costa e le agglomerazioni urbane”.
Gli fa eco il documento Dinamiche e tendenze dello spopolamento in Sardegna - Focus sulle aree LEADER, dove si sostiene: “il fenomeno dello spopolamento in Sardegna è un processo continuativo […] che ha assunto dimensioni considerevoli dagli anni ’50 ad oggi.” E più avanti: “’importanza e l’entità del fenomeno dello spopolamento, ancor più se si considera che si tratta di un fenomeno presumibilmente destinato ad acuirsi, data la previsione ISTAT per la quale, a partire dal 2015[17], la popolazione sarda comincerà […] a diminuire. Il problema dello spopolamento si pone […] come un importante ostacolo ad uno sviluppo socio-economico equilibrato del territorio”. Infine, sempre dal PRS: “al processo di progressivo spopolamento, di emigrazione interna dei paesi dell’interno verso le città e in particolare verso le città costiere, ha corrisposto un aggravamento dei divari di crescita e di qualità della vita […]. Il riconosciuto processo di indebolimento del tessuto sociale ed economico delle zone interne, non ha trovato negli ultimi 20 anni, […] risposte”.
Il problema è l’assenza drammatica di politiche, ed è a questa mancanza che bisogna sopperire. È mancata la volontà e il coraggio di opporsi a quello che appare come il lento ed inarrestabile corso del destino.
Il fenomeno delle migrazioni in Sardegna si articola su due piani. Uno è la migrazione interna epocale di cui abbiamo parlato, l’altro è quello, non meno epocale, dell’emigrazione fuori dall’Isola. Si tratta di un fenomeno di vaste proporzioni e in crescita. Oggi i livelli migratori del Mezzogiorno sono assimilabili a quelli del Grande Esodo del 1961-63’[18].
I due fenomeni migratori, combinandosi, hanno un effetto devastante. Le prospettive per i prossimi decenni sono demoralizzanti: meno abitanti, meno giovani e meno bambini, l’area metropolitana di Cagliari ingestibile e degradata. In un’Isola desertificata, una metropoli ipertrofica non crea sviluppo o benessere.
Nei Piani Strategico Nazionale (PSN) e di Sviluppo Rurale (PSR) vengono delineate le Aree Rurali con Problemi Complessivi di Sviluppo, quelle Intermedie, quelle ad Agricoltura Intensiva e Specializzata e i Poli Urbani[19].
Le Aree con Problemi Complessivi di Sviluppo comprendono 295 Comuni e occupano l’81,4% del territorio regionale in cui risiede il 51,7% della popolazione. La densità di popolazione è di 45 ab/kmq, nettamente inferiore alla media regionale (68 ab/kmq), ed anche a quella italiana per la stessa tipologia di aree (54 ab/kmq). Questi territori sono caratterizzati da fenomeni di spopolamento molto accentuati in quanto, nel periodo intercensuario 1991-2001, si è rilevato un decremento degli abitanti del 4%, superiore sia alla media regionale (-0,9%) che a quella italiana (-0,76%). Si riscontra anche un indice di invecchiamento piuttosto elevato (170%), superiore sia alla media regionale (116%) che a quella italiana (135%).
In queste aree, e soprattutto nelle zone interne, l’agricoltura rappresenta una fonte di reddito primaria. La percentuale media di occupati in agricoltura, rispetto al totale, è del 15,8%.
Un nuovo patto tra Città e Campagna
Il calo della domanda di servizi innescato dallo spopolamento comporta un’ulteriore diminuzione dell’offerta degli stessi. Quel che è peggio è che oltre al calo “fisiologico” dell’offerta di servizi, bisogna aggiungere i tagli ai servizi pubblici effettuati da Stato e Regione. L’attuazione del federalismo fiscale rischia di peggiorare questa situazione. Si tratta, inoltre, di politiche messe in atto a livello europeo.
È necessario che la società sarda si impegni con tutte le sue energie in uno sforzo possente che possa spezzare questa spirale, che non sarà possibile senza un intervento massiccio del pubblico nei meccanismi socio-economici che l’hanno determinata.
Il documento "Dinamiche e tendenze dello spopolamente in Sardegna - Focus sulle aree LEADER" si conclude così:“In assenza di misure sinergiche e coordinate […] non è pensabile frenare lo spopolamento in atto, per il quale la sola politica di sviluppo rurale attualmente in campo, sebbene di notevole impulso, risulta del tutto insufficiente […].
Il documento "Dinamiche e tendenze dello spopolamente in Sardegna - Focus sulle aree LEADER" si conclude così:“In assenza di misure sinergiche e coordinate […] non è pensabile frenare lo spopolamento in atto, per il quale la sola politica di sviluppo rurale attualmente in campo, sebbene di notevole impulso, risulta del tutto insufficiente […].
In conclusione, la gravità della tendenza allo spopolamento di molte aree rurali della Sardegna, postula l’esigenza di un maggiore coordinamento fra la politica di sviluppo rurale di matrice comunitaria e le altre politiche regionali e nazionali”.
Questo è ciò di cui abbiamo bisogno: un piano integrato di sviluppo. Oltre al sostegno alle imprese abbiamo individuato una serie di politiche, non meno urgenti, da affiancare. Questo piano non è un piano settoriale. Lo sforzo per lo sviluppo delle aree rurali è un obiettivo vitale per evitare il collasso
della Sardegna. Ecco alcune linee guida:
- Incrementare il reddito degli impiegati nel settore agricolo attraverso la ricerca di connessioni tra l’offerta locale e quella delle aree maggiormente urbanizzate e ad alta densità abitativa (Sassari, Olbia, Oristano, Carbonia, Nuoro, Cagliari e hinterland) con la produzione agro-alimentare delle aree rurali. I comuni più grandi dovrebbero costituire una filiera che unisca la produzione locale con la distribuzione commerciale urbana.
- Migliorare la qualità della vita e potenziare l’offerta di servizi nelle zone rurali. Il criterio deve essere: nessun bambino senza insegnante, nessun pendolare senza trasporto e nessun anziano senza assistenza, ovunque si trovino.
- Potenziare le risorse dei GAL, sino a farli divenire agenzie di sviluppo. Bisogna coinvolgere le comunità locali nello sforzo per lo sviluppo, rafforzando tutti i meccanismi di partecipazione dal basso (bottom up) e valorizzando le risorse presenti nella società civile.
- Potenziare gli incentivi al rientro per gli emigrati. Gli emigrati sono parte della comunità sarda, sono giovani, capacità ed energie che vengono sottratte dalla loro terra. Fuori dalla Sardegna risiedono molti laureati, persone qualificate e tantissimi uomini e donne che desiderano rientrare nelle loro comunità.
- Dare sostegno alle famiglie e alle nascite. La Sardegna è una delle nazioni con i più bassi tassi di fertilità e natalità del mondo. Si tratta di qualcosa di straordinario e anormale.
Queste politiche, a parte il punto 1, sono “pura spesa pubblica”. Si pone il problema del loro finanziamento. L’ente che si trova a doverne sopportare gli oneri maggiori è la Regione. Questa conquista di sovranità si può finanziare solo con un’altra conquista di sovranità. Infatti, un piano di questa portata si potrà finanziare solo con la risoluzione della vertenza entrate.
Quale progetto?
Proponiamo tre fasi, che dovrebbero portare al compimento del progetto.
Prima fase
Sosteniamo un programma di aiuti economici immediati alle aziende perchè rimangano in attività in questo periodo di transizione. Nessun altro posto di lavoro in Sardegna dev'essere perduto. Come si sono spesi miliardi per salvare dal collasso banche e industrie automobilistiche, così chiediamo venga fatto per il comparto agroalimentare in Sardegna.
Seconda fase
Favoriamo il mercato agroalimentare interno e colleghiamolo alla filiera turistica, per soddisfare innanzitutto il consumo locale, per far diminuire le importazioni dei prodotti alimentari. In questo modo avremo uno sbocco commerciale immediato a km zero e un incremento di occupazione.
Terza fase
Trasformazione del modello. Controllo e incentivazione programmata di produzioni di qualità, forte riduzione della quantità di pecorino romano a favore di formaggi e prodotti di qualità, sovvenzionamento delle aziende che abbandonano la produzione "classica" per quella biologica, incentivare le aziende di trasformazione ecocompatibili.
Alcune domande
Quale sostegno per le aziende agricole?
- Costituzione di OP (organizzazioni di produttori) di ampie dimensioni;
- Incentivare l'agricoltura biologica, ripristino della biodiversità e abbandono delle coltivazioni intensive con ripristino delle rotazioni e l'integrazione dell'humus. Mangimi e sementi devono essere prodotti in azienda;
- Incentivare l'allevamento naturale e/o biologico valorizzando le specie sarde, (in questo modo si combattono anche quelle malattie che nascono dall'allevamento intensivo: lingua blu, mucca pazza, influenza aviaria ecc);
- Incentivare l'autoproduzione di energia elettrica da fonti rinnovabili anche per quantità di energia superiori a quelle utilizzate in azienda. Bisogna, però, evitare le speculazioni;
- Defiscalizzazione degli investimenti e abbattimento dei debiti regressi, prevedendo una modulazione ed un tetto massimo;
- Incentivare realmente l'ingresso dei giovani nelle aziende agricole, curandone la formazione sia a livello scolastico (sarebbe interessante verificare lo stato degli istituti tecnici agrari) che a livello di formazione continua;
- Introduzione di sistemi di pagamento differenziato del latte in base alla resa in caseificazione e alla qualità sanitaria (carica batterica e cellule somatiche). L’applicazione di questi strumenti di pagamento dà maggiore valore al lavoro dell’allevatore premiandolo con una maggiore remunerazione. Attualmente i sistemi di pagamento differenziato sono applicati solamente da alcuni caseifici (sia cooperativi che privati);
- Accesso ai finanziamenti solo alle aziende che rispettino parametri precisi e verificabili.
In contemporanea, quale sostegno per le cooperative di trasformazione?
- Abbandonare la monocoltura del pecorino romano attraverso la diversificazione della produzione. Incentivare la produzione di fiore sardo e pecorino sardo, di formaggi di grande qualità e formaggi a latte crudo;
- Ripensare le DOP e la gestione dei consorzi di tutela che devono programmare le produzioni, orientare le stesse produzioni al mercato e sostenere i produttori. In Sardegna abbiamo tre DOP: Pecorino Romano, Pecorino Sardo (nelle due tipologie dolce e maturo) e Fiore Sardo. Non è possibile che un DOP venga pagato meno di altri senza marchio;
- Abbattimento dei costi di produzione attraverso: risparmio energetico, autoproduzione energetica da fonti rinnovabili e modernizzazione degli impianti;
- Attivazione di cooperative di servizi per le aziende produttrici in grado di fornire servizi comuni a minor costo (consulenze di veterinari e agronomi, utilizzo comune di mezzi agricoli, acquisto di materie prime indispensabili quali mangimi, concimi, semenze ecc);
- Valorizzazione e recupero dei cosiddetti sottoprodotti quali lana, carne, pelle, sieri ecc; Associazione in consorzi per la commercializzazione dei prodotti, e ricerca di mercati per i sottoprodotti;
- Permettere l'ingresso come soci ai dipendenti delle cooperative;
- Formazione continua degli addetti del settore;
- Le cooperative e le aziende in crisi non vanno chiuse ma affidate in gestione ai dipendenti.
Quale ruolo per l’Università?
Maggiore attenzione su:
- Valorizzazione e recupero dei sottoprodotti della lavorazione del latte;
- Ricerca e recupero razze animali autoctone resistenti e ben adattabili ai nostri pascoli;
- Creazione e valorizzazione di produzioni innovative dalle carni;
- Ricerca e promozione di bioinsetticidi e altri prodotti biologici per la difesa da infestazioni e malattie delle colture e dei biofertilizzanti;
- Incentivare la produzione in azienda di compost e humus;
- Controllo biologico ed integrato di insetti, malattie ed erbe infestanti;
- Prodotti microbiologici: potenziamento e utilizzazione delle collezioni microbiche e di varietà vegetali gestite dalla Facoltà di Agraria.
E la Regione Sardegna?
- Accompagnamento e promozione del cambiamento del “modello” agricolo;
- Finanziare in modo adeguato il sistema rurale con incentivi alle aziende che scelgono di produrre in maniera biologica e sostenere la filiera corta e il mercato locale;
- Garantire la tracciabilità del prodotto;
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- Consumo nelle mense scolastiche, ospedaliere.
Un progetto, anche se bellissimo, rimane tale se non c'è un collante che lo leghi alla società e al resto delle attività produttive. Dobbiamo trovare il collante che unisca il popolo sardo. Questo collante è la conquista di sovranità.
Abbiamo bisogno di conquistare sovranità. Bisogna mettere sotto il controllo democratico del popolo i processi economici, politici e sociali. Proponiamo un modello in cui la Sardegna è il centro. Noi siamo il centro di noi stessi, e vogliamo decidere.
Fintanto che una nazione resterà in balia della finanza, del grande capitale e degli interessi stranieri, non si potrà dire veramente sovrana e democratica.
Qualcuno nel mondo ha già lanciato un seme nella lotta per la conquista di questi diritti, una voce si è levata al grido di: “Patria, Socialismo o muerte”. Riprendiamoci il nostro destino lottando insieme contro il colonialismo, l’imperialismo e il neo liberismo che opprimono il mondo, i popoli, e i sardi.
“Terra e soberania: progetto terra sarda” nasce dal confronto tra il “Gruppo di studio anticolonialista”, il circolo PRC-FdS “Hutalabi” di Sassari, il circolo PRC-FdS “Palmiro Togliatti” di Cagliari. Gli estensori del documento sono Filippo Simbula (Sassari), Simone Cardia (Sestu), Ignazio Ibba (Oristano), Enrico Lobina (Cagliari) e Jacopo Bene (Milano).
Bibliografia
Autorità di Gestione del Programma di Sviluppo Rurale della Sardegna 2007-2013, Relazione Annuale di Esecuzione 2009, Cagliari giugno 2010
Bianchi Luca, Provenzano Giuseppe, Ma il cielo è sempre più su? L’emigrazione meridionale ai tempi di Termini Imerese, Castelvecchi, Roma 2010
Colombo Luca, “La (ri)volta del cibo” in Diritto alimentarei, n. 2-2010, pp.
Colombo Luca, Onorati Antonio, Diritti al cibo! Agricoltura sapiens e governance alimentare, Jaca Book, Milano 2009
Idda Lorenzo, Furesi Roberto, Pulina Pietro, Economia dell’allevamento ovino da latte – Produzione, trasformazione, mercato, Franco Angeli, Milano 2010
Onorati Antonio, di Sisto Monica, “Grano alle stelle, maggiordomi cinesi e dieci piccoli indiani”
van der Ploeg Jan Douwe, I nuovi contadini: le campagne e le risposte alla globalizzazione, Donzelli, Roma 2009
Sitografia
destinosardegna.blogspot.com
www.linkontro.info
www.movimentopastorisardi.org
www.regione.sardegna.it
www.sardegnademocratica.it
Note:
[1] Cfr. Jan Douwe van der Ploeg, I nuovi contadini: le campagne e le risposte alla globalizzazione, Donzelli, Roma 2009
[2] Autorità di Gestione del Programma di Sviluppo Rurale della Sardegna 2007-2013, Relazione Annuale di Esecuzione 2009, Cagliari giugno 2010, p. 11. Disponibile all’indirizzo http://www.regione.sardegna.it/documenti/1_26_20100914094350.pdf.
[3] Sementi, energia e lubrificanti, concimi e ammendanti, antiparassitari, mangimi, manutenzioni di macchine e fabbricati agricoli, altri. Cfr. Idem, p. 13.
[4] Idem, p. 14.
[5] Ibidem. La diminuzione della capitalizzazione in agricoltura non è, di per sé, un fenomeno negativo in agricoltura. La questione è come permettere ai produttori di accedere ai fattori produttivi necessari.
[6] Si vedano, sul web, le posizioni espresse da Olivier de Schutter.
[7] Cfr. Luca Colombo, “La (ri)volta del cibo” in Diritto alimentarei, n. 2-2010.
[8] Luca Colombo, Antonio Onorati, Diritti al cibo! Agricoltura sapiens e governance alimentare, Jaca Book, Milano 2009, p. 84.
[9] Antonio Onorati, Monica di Sisto, “Grano alle stelle, maggiordomi cinesi e dieci piccoli indiani”, su http://www.linkontro.info/index.php?option=com_content&view=article&id=191:grano-alle-stelle-maggiordomi-cinesi-e-dieci-piccoli-indiani&catid=35:economia-globale&Itemid=74#top-toolbar-article.
[10] Si tratta del nuovo ruolo delle 3 F: food-feed-fuel (cibo-sementi-benzina), in contrasto e continuo conflitto tra loro.
[11] Luca Colombo, Antonio Onorati, cit., p. 23
[12] Per uno spaccato sul rapporto tra energia e agricoltura cfr. Luca Colombo, Antonio Onorati, cit.
[13] Cfr. http://destinosardegna.blogspot.com
[14] Informazioni tratte da Lorenzo Idda, Roberto Furesi e Pietro Pulina, Economia dell’allevamento ovino da latte – Produzione, trasformazione, mercato, Franco Angeli, Milano 2010
[15] Movimento “Pastori Sardi”, Richiesta del Movimento Pastori Sardi, p. 1. Reperibile su http://www.movimentopastorisardi.org/wp-content/uploads/2010/09/manifesto00.pdf.
[16] Idem, p. 2.
[17] Uno studio dell’Università di Cagliari fa una previsione leggermente peggiore, sostenendo che la popolazione comincerà a decrescere dal 2011.
[18] Cfr. Luca Bianchi, Giuseppe Provenzano, Ma il cielo è sempre più su? L’emigrazione meridionale ai tempi di Termini Imerese, Castelvecchi, Roma 2010
[19] Le aree vengono identificate con una lettera: Poli Urbani “A”; Aree Rurali ad Agricoltura Intensiva e Specializzata “B”; Aree Rurali Intermedie “C”; Aree Rurali con Problemi Complessivi di Sviluppo “D”
[20] In proposito si veda l’articolo Prodotti agricoli, mercati, salute: una proposta per Cagliari http://www.sardegnademocratica.it/index/economia/articolo/26995/prodotti-agricoli-mercati-salute-una-proposta-per-cagliari.html
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